Roma, Teatro Quirino Vittorio Gassman Stagione 2022/ 2023
“LA ROBA”
di Giovanni Verga
con: Enrico Guarnieri, Giampaolo Romania, Nadia De Luca, Francesca Ferro, Rosario Marco Amato, Elisa Franco, Alessandra Falci, Gianni Fontanarosa, Giuseppe Parisi, Maria Chiara Pappalardo
Regia Guglielmo Ferro
Drammaturgia Micaela Miano
Costumi Sartoria Pipi Palermo
Musiche Massimiliano Pace
Scenografie Salvo Manciagli
Progetto Teatrando
Roma, 07 Marzo 2023
“Sicché quando gli dissero che era tempo di lasciare la sua roba, per pensare all’anima, uscì nel cortile come un pazzo, barcollando, e andava ammazzando a colpi di bastone le sue anitre e i suoi tacchini, e strillava: — Roba mia, vientene con me!” (Giovanni Verga, La Roba )
Il Teatro Quirino Vittorio Gassman apre le sue porte allo spettacolo “La roba” di Giovanni Verga per la regia di Guglielmo Ferro con un omaggio al genio intramontabile dello scrittore siciliano e lo fa nell’anno in cui si celebra il centenario della sua morte. In un’epoca dove il possesso dei beni rappresenta molto spesso l’identità sociale e non solo di un individuo ,il tema è assolutamente da definirsi ancora assai attuale. L’arco vertiginoso di Mazzarò, la sua sbalorditiva e inarrestabile ascesa da misero bracciante impiegato a giornata a ricchissimo proprietario terriero: è questo il nucleo narrativo della novella di Verga La roba, sorta di cartone preparatorio del secondo e ultimo romanzo dell’incompiuto ciclo dei «vinti» inaugurato dai Malavoglia, Mastro-don Gesualdo. Grazie alla sua «testa come un brillante», Mazzarò ha accumulato un’enorme, sterminata quantità di «roba», in quei luoghi dove prima, povero bracciante senza scarpe né cappotto, zappava dalla mattina alla sera, potava e mieteva, quando quelli che ora gli danno «dell’eccellenza» lo prendevano a calci nel sedere. Un mutamento radicale, così radicale da sembrare quasi favolistico – ma una testa brillante, abbinata a un furore faustiano, può tutto. Mazzarò non ha che la sua «roba», per la quale si sacrifica quotidianamente con ardore. La «roba» è lo scopo e il senso della sua vita. Nella novella i rapporti umani sono completamente azzerati, annullati, aboliti. Mazzarò non ha nessun altro oltre se stesso e nient’altro oltre la «roba», in una condizione ancor più estrema e radicale rispetto al successivo Mastro-don Gesualdo, in cui all’ossessivo, patologico impeto dell’accumulo si affianca il tentativo disperato e fallimentare di creare nuovi legami affettivi con la formazione di una propria famiglia, sebbene il matrimonio resti pur sempre e principalmente un affare. A Mazzarò gli affetti non interessano, come non interessa il denaro, ma solo la «roba», accumularne indefessamente il più possibile, fino a eguagliare il re ed essere persino migliore del re. Ma giunge la morte e azzera tutto, annulla tutto, svuota completamente di senso l’ossessivo accumulo di «roba» di Mazzarò rivelandone spietatamente l’insensatezza, dunque l’insensatezza della sua vita, fondata proprio su quell’accumulo incessante. Alla fine dei suoi giorni, Mazzarò invidia il ragazzo seminudo, «curvo sotto il peso come un asino stanco», che gli passa davanti, povero e affaticato, sfruttato, umiliato dal lavoro ma ancora giovane, ancora molti anni a disposizione, e mentre ammazza a colpi di bastone anatre e tacchini, grida: «Roba mia, vientene con me!». La morte vanifica, nullifica il faustiano eroismo di Mazzarò, il suo lungo e inarrestabile processo di rivalsa, di riscatto sociale, e lo stesso accadrà, in modo ancor più umiliante, a mastro-don Gesualdo. La regia di Guglielmo Ferro non manca di trasportare in scena con numerosi e nuovi dettagli di scrittura una novella che è in verità relativamente breve e lo fa con grande attenzione puntando chiaramente sugli attori e sulla parola grazie anche all’originale adattamento di Micaela Miano che arricchisce il testo aggiungendo come cornice alla storia altri accadimenti letterari di altre novelle verghiane. Le scenografie di Salvo Manciagli e realizzate dal Laboratorio ABC sono semplicissime, ma efficaci riuscendo con veramente poco a ricreare attraverso un ‘unico ambiente quell’atmosfera della Sicilia del XIX secolo descritta da Verga. Ha utilizzato pochi elementi di scena: un ulivo centrale, dei cesti ed uno sfondo luminoso. L’ulivo, utilizzato per rappresentare il paesaggio siciliano, ha svolto al contempo anche una funzione simbolica, evocando l’idea di un mondo arcaico e statico, ma anche quella di resistenza e di adattamento alle difficoltà. Il background luminoso, invece, conferisce all’insieme un’atmosfera sognante e surreale, in grado di evocare sensazioni e emozioni profonde. La scelta di una luce morbida e diffusa, anziché di una luce diretta e intensa, aiuta a creare una sensazione di calma e di serenità, ma anche di una nevrotica fissità che si accorda perfettamente con l’atmosfera generale della rappresentazione e lo scorrere degli anni e delle stagioni. Di tradizione e di buona fattura i costumi della Sartoria Pipi Palermo. Tra i componenti del cast è emerso tra tutti certamente Enrico Guarnieri (Mazzarò),un attore ormai rodato nei ruoli di repertorio siciliano veristico. La sua interpretazione ha saputo rendere la complessità di Mazzarò attraverso un uso attento del linguaggio non solo verbale, ma anche del corpo e del volto attraverso una mimica efficace. La sua capacità di esprimere emozioni forti e contrastanti, come la rabbia e la disperazione, è stata indubbiamente fondamentale per la riuscita della sua interpretazione: ha dalla sua un accento siciliano autentico ed una capacità duttile di variare il tono della sua voce esprimendo così al meglio l’evoluzione interiore del complesso personaggio in ogni suono ed ogni respiro. Bene tutto il resto del cast. Lo spettacolo è prodotto dall’associazione Progetto Teatrando che da anni segue la mission di promuovere il patrimonio culturale della letteratura siciliana, attraverso un lavoro di riscrittura drammaturgica dei nostri classici. Pubblico molto partecipe ed entusiasta che ha gradito e regalato generosi applausi e convinti a tutti. Qui per le altre date.