Milano, Teatro Elfo-Puccini: “Spettri”

Milano, Teatro Elfo-Puccini, Stagione 2022/23
SPETTRI”
di Henrik Ibsen
V
ersione italiana e adattamento Fausto Paravidino
Helene Alving ANDREA JONASSON
Osvald Alving GIANLUCA MEROLLI
Pastore Manders FABIO SARTOR
Engstrand GIANCARLO PREVIATI
Regine ELEONORA PANIZZO
Regia Rimas Tuminas
Scene e Costumi Adomas Jacovskis
Disegno Luci
Fiammetta Baldiserri riprese da Oscar Frosio
Produzione TSV – Teatro Stabile del Veneto
Milano, 11 marzo 2023
Si è conclusa al Teatro dell’Elfo di Milano la tournée di “Spettri” di Henrik Ibsen, per la regia di Rimas Tuminas, che ha visto il grande ritorno sulle scene di Andrea Jonasson, una delle ultime strehleriane. Non è senza emozione che ci siamo avvicinati a questa produzione, sia per la sua protagonista, sia per la regia di uno dei registi più interessanti della scena europea, il lituano Tuminas – classe ’51, formatosi tra Lituania e Russia e appartenente allo stesso milieu culturale di Nekrošius e Vasil’ev. E dopo la visione della recita, è solo una la domanda che ci sorge spontanea: cosa rende davvero straordinario uno spettacolo teatrale? In questo caso, ad esempio, abbiamo un testo di incomparabile valore, un regista di indiscutibili talento e autorevolezza, un’attrice protagonista affascinante e caparbia, dalla carriera sfolgorante. Eppure qualcosa comunque non va. Certo nulla che riguardi queste tre dimensioni: “Spettri”, anche se molto rimaneggiato da Fausto Paravidino, rimane uno dei testi più acuti e d’impatto della produzione ibseniana, la riflessione del drammaturgo norvegese sulla colpe dei padri che ricadono sui figli, a cavallo tra il fatalismo della tragedia greca e le leggi positiviste sull’ereditarietà; la regia di Rimas Tuminas interviene molto in profondità nella drammaturgia originaria senza distorcerla del tutto: le scene di danza, ad esempio, sono di grande effetto, così come l’uso di certe pause, la costruzione dei rapporti tra personaggi; Andrea Jonasson ha ancora un naturale magnetismo scenico, e l’accento germanico, in questo caso, non fa altro che aumentare lo straniamento della sua Helene, madre e peccatrice, manipolatrice e santa, un cumulo di contraddizioni dai capelli di fuoco, capace ancora di un manierismo che un po’ manca, oggi, sui nostri palcoscenici (sguardi in tralice, mani che si muovono nell’aria come fiori, voce dalle sinuosità cantabili). Anche le scene di Adomas Jacovskis hanno constribuito alla fascinosa messa in scena, con il grande specchio ondeggiante sul fondo, e le poche sedie tra i pilastri, tutto sui toni del polvere, del verde pino, del blu di Prussia; così come le luci di Fiammetta Baldiserri, geometrie rarefatte in una casa di ombra e fumo. A partire dai costumi dello stesso Jacovskis, però, tanta perfezione inizia a scricchiolare: non si rispetta l’anno di composizione (il 1881), nemmeno però si cerca un’effettiva coerenza tra i costumi dei vari personaggi, che si assestano su un generico “passato”. I punti più dolenti, tuttavia, si raggiungono con le interpretazioni del cast: breve ma incisiva la prova di Giancarlo Previati come Engstrand, l’umile che ha la possibilità di salvarsi dal massacro del gioco drammatico; molto affettata e talvolta generica l’interpretazione del pastore Manders fornita da Fabio Sartor: certamente più a suo agio nelle dinamiche leggere – come la scena con Regine –, la natura grottesca del personaggio non giustifica i cliché che sciorina nei confronti più cruenti con Helene e Osvald; Regine è portata avanti dalla prima all’ultima battuta in maniera molto caricata: non sappiamo se questa scelta sia stata di Tuminas o di Eleonora Panizzo che la incarna, sta di fatto che risulta in questo modo bidimensionale, quasi riversa semplicemente sulla sua ambizione – e molto poco credibile nella veste dell’innamorata di Osvald. Proprio Gianluca Merolli, il protagonista maschile, è l’interprete che solleva più perplessità: per quanto si sforzi di dare corpo e colore al complessissimo Osvald Alving, egli è penalizzato da alcuni elementi oggettivi e da alcune scelte registiche – ci riferiamo a una fisicità e soprattutto una cadenza troppo mediterranea (a tratti regionale), se comparate all’ipergermanica Jonasson, ma anche al diafano protagonista tratteggiato da Ibsen. Il lavoro di Merolli perde credibilità prima di tutto sul piano vocale, e poi a causa di un’interpretazione del personaggio che Tuminas vuole chiaramente eviscerare, mentre per Ibsen trae forza proprio dalla sua umbratile ambiguità. Sul finale rimaniamo perplessi di fronte a una Helene come una Madonna e Osvald un Gesù deposto: può essere che al pubblico di oggi piacciano queste rielaborazioni, ma noi siamo abbastanza certi del fatto che Ibsen si sarebbe molto indignato di fronte a un simile finale, giacché non è in nessun modo sua intenzione di santificare o mitologizzare questa coppia madre-figlio, quanto spezzarla, sbugiardarla, demitizzarla. La sommatoria di tutti questi elementi porta a una sensazione di insoddisfazione: sappiamo di aver visto un bello spettacolo, ma forse non un grande spettacolo. E, considerate le premesse, un po’ dispiace. Foto Rimas Tuminas