#Maledancer di Deborah D’Orta

#MALEDANCER
Di Deborah D’Orta con prefazione di Giuseppe Carbone
Buckfast Edizioni, 2022, pp. 196
ISBN 978-8899551537
€ 15,00
Non appena ci è stata resa nota la pubblicazione del libro #maledancers ci siamo incuriositi e abbiamo deciso di recensirlo. Purtroppo, non siamo riusciti a pubblicare la recensione prima, ma forse è ancor più utile parlarne ora, a poco meno di un anno dalla sua uscita. Dopo l’introduzione di Giuseppe Carbone, l’autrice, Debora D’Orta, replica uno schema di intervista più o meno fisso a una dozzina di ballerini. Coloro che hanno risposto presentano una varietà di curricula ed esperienze molto ampie, si va da chi balla alla Scala ad altri che “lavorano in proprio”, all’estero come Riva e Repele, o a coloro che hanno anche partecipato a talent televisivi come Amici. Colpiscono, in prima battuta, due filoni: se questi uomini abbiano dovuto affrontare degli stereotipi, e come stiano percependo la situazione della danza maschile. Riguardo agli stereotipi, i ballerini intervistati si dividono abbastanza, alcuni vi sono incappati, altri no; ma a riguardo ci sembrano significative le dichiarazioni di Hektor Budla, albanese, entrato nelle sale di danza grazie alle preoccupazioni dei genitori, i quali non volevano vivesse in strade poco raccomandabili di Tirana: “C’erano molti ragazzi maschi che facevano danza. Faceva parte della nostra cultura”. In seconda battuta, sono in parte comuni, in altre sembrano quasi completarsi, le impressioni su come gli intervistati percepiscano la situazione attuale della danza maschile. Oggi l’interesse per l’uomo che danza è aumentato, la tecnica si è maggiormente evoluta (anche se, per alcuni, talvolta a scapito dell’artisticità), i requisiti fisici richiesti sono più selettivi, e la ricerca del perfezionismo a livello estetico è una tendenza non solo maschile ma della danza classica in generale. Hektor Budla, a riguardo, afferma nuovamente qualcosa di interessante: “oggigiorno si pensa al movimento in relazione alla tecnica, e quindi i ballerini sono divisi tra classico e contemporaneo: ci sono coloro per cui la tecnica è tecnica, mentre la danza è qualsiasi cosa…” una divisione pericolosa, perché “prima esistevano grandi compagnie contemporanee con ballerini che provenivano dal classico. Questo è sia un bagaglio tecnico che artistico. Di apertura nello scoprire tutte le sfaccettature della danza. Purtroppo queste compagnie sono sempre più rare”. A controbilanciare questo quadro sono interessanti le dichiarazioni di Alejandro Parente, a cui però non è stata posta la domanda “Com’è cambiata la danza maschile rispetto a quando hai iniziato?”. Secondo Parente si dovrebbe sostituire l’idea di perfezione (che quindi viene vista dal ballerino come una sorta di deus ex machina) con quella di precisione (un qualcosa che invece viene visto come endogeno all’animo dell’artista). Esaminarsi vuol dire anche affrontare un altro argomento sollevato spesso quando si parla di danza. Santarelli parla del rapporto con lo specchio: può essere un argomento molto stimolante, perché i ballerini devono guardarsi allo specchio, spesso; è un rapporto difficile, perché guardandosi bisogna superare il non vedersi sufficientemente belli e bravi, ma anche si deve evitare di fare la fine di Narciso: i ballerini devono sviluppare un sentire se stessi, un esaminarsi allo specchio per imparare a osservarsi dentro; perché sul palco lo specchio non c’è, ma è presente solo la loro persona. In aggiunta a tutte queste, ed altre, considerazioni, in ogni singola intervista riusciamo anche a capire un po’ del carattere di colui che si racconta, passiamo da danzatori di poche parole, alla volontà di altri di voler condividere tutto ciò che si ritiene giusto condividere, come fa Christian Fagetti, dal cui profilo Instagram già intuiamo la sua generosa indole a volter comunicare, potendo seguire il suo percorso social come un diario.
Nonostante tutti i pregi – ma anche qualche difetto, come la veste grafica e la qualità della carta che poteva essere migliore – questo libro non basta, soprattutto per la danza maschile italiana. Con l’introduzione, Giuseppe Carbone fa un punto molto veloce sullo stato di salute della danza maschile in questi anni. Nureyev emerge come il ballerino che più di tutti ha ridato il giusto posto al ruolo dell’uomo, e dopo di lui Bolle. Ma ciò non basta. Nella visione di Carbone, “c’è bisogno di pluralità, di concorrenza, di varietà di stili e di caratteri per arricchire sempre di più questa disciplina, altrimenti si rimane fermi”. E la fiducia nel futuro da parte di Carbone per la danza italiana è però poca, perché “è necessario trovare quella parte artistica che va oltre la tecnica classica, questo noi non lo potremo avere, perché il balletto sta morendo. I ballerini ci sono, le scuole sono piene di ragazzi che studiano con amore e dedizione. Ma alla fine questi ragazzi dove potranno andare a fare i professionisti? Molti sono costretti ad andare all’estero. In Italia manca un po’ il concetto di ‘compagnia junior’”. È un concetto che emerge in più punti di #maledancers, ad esempio, nelle dichiarazioni di Mick Zeni o in quelle di Riva e Repele. Ma possiamo anche aggiungere che il rispetto per le compagnie maggiori è troppo spesso molto poco, basti pensare alla situazione contrattualmente precaria di molte compagnie italiane, anche importanti – per non parlare dell’inesorabile ecatombe delle compagnie di ballo dei principali teatri italiani, lasciate morire, crediamo, in un circolo vizioso di mancanza di fondi e qualità. In più, a nostro avviso, il fattore culturale è ancora troppo deficitario. “Le scuole sono piene di ragazzi” afferma Carbone, ma dovremmo aggiungere le scuole accademiche di più alto livello; le scuole per dilettanti italiane, quelle da cui ogni ballerino comincia, sono ben lungi dall’essere piene di ragazzi, soprattutto quelle di danza classica. Fino a che non sarà comune che un uomo possa avere la curiosità di mettersi alla sbarra e ballare, come sembra accada altrove (ci riferiamo alla testimonianza di Budla) come potrà la danza essere un fattore culturale? Ci sembra, quindi, che la sola dimensione dilettantesca (qualsiasi significato a questa parola si voglia dare, ma nella nostra visione ha un sapore tutto settecentesco) possa rafforzare l’importanza della danza nella cultura di un popolo. Se non dovesse bastare tutto ciò, oltre alla situazione contrattuale precaria, l’uomo che danza dovrà anche cercare di entrare in un organico dove “sono predominanti le donne perché nei grandi balletti classici ci sono più parti corali femminili, i cosiddetti Atti Bianchi […] Addirittura all’inizio non ballavano nemmeno: il balletto classico nasce per la donna”. Quest’ultima affermazione di Carbone è significativa, insieme al suo incipit: “la figura maschile nel balletto inizia a vedersi intorno alla fine degli anni Cinquanta […] grazie ad un personaggio come Rudolf Nureyev: lui è stato il primo a dare valore – agli occhi del pubblico e della critica – al ballerino uomo”, tanto che in Italia, alla nascita dell’Accademia Nazionale di Danza, gli uomini non erano ammessi, “la sua fondatrice, Jia Ruskaja, pensava che la danza fosse concepita come qualcosa di esclusivo per le sole ragazze”. Fu proprio Giuseppe Carbone “il primo uomo ad entrare in classe con le allieve”. Perché tutto ciò è significativo? Poiché, dalle parole di Carbone, il balletto classico sembra avere il suo ‘anno 0’ nell’Ottocento, e che l’uomo ne fosse screditato criticamente. Che origine hanno queste convinzioni? Nella critica militante ottocentesca, prevalentemente francese. Ma la danza classica (o meglio “accademica”) ha le sue origini nel Seicento, per opera del Re Sole, e che tutta la danza nobile era più prettamente maschile, fatta di entrechats e giri che venivano eseguiti durante le sarabande nei palazzi nobili: è questa l’immagine che arriva fino agli inizi dell’Ottocento (e ne Il Manoscritto ritrovato a Saragozza di Jan Potocki, ad esempio, è presente una testimonianza poco nota di tutto ciò). Terminiamo questa piccola peregrinazione disordinata dicendo che, una volta letto questo libro, esso finisce troppo presto, lasciandoci con tante domande a cui vorremmo una risposta. Non è necessariamente un demerito, ma è invece una manifestazione di interesse; e una manifestazione di interesse necessiterebbe di ulteriori interventi, che speriamo arrivino. Certo, un capitolo di conclusioni e un apparato più corposo di commenti avrebbe potuto chiudere meglio il quadro e tirare le fila di queste interviste, ma prendiamo invece questa mancanza come se fossimo di fronte ad un finale aperto di un film.