Daniele Piscopo è uno dei giovani registi d’opera italiani più lanciati del momento: con grande onestà intellettuale (ossia senza scorciatoie di qualsivoglia tipo) e profonda attenzione per il lavoro in ogni suo aspetto, da quello critico-teorico a quello più applicativo, si sta ricavando uno spazio sempre più importante in Italia e all’estero. Oltre a questo, è un amico, un ottimo amico, perché è una persona di rara dolcezza e sincerità: un gigante buono (vista l’altezza e la prestanza fisica) che mi dà appuntamento in una sala da tè dal sapore rétro sul lago di Lugano – perché la dimensione estetica gli appartiene anche fuori dal teatro. Dopo convenevoli e aggiornamenti sulle reciproche vite, gli spiego che sono solito stimolare i miei interlocutori con cinque parole a scatola chiusa. Accetta il gioco e cominciamo.
Daniele, la tua prima parola è CANTO. Tasto dolente? – ironizzo.
“No, dolente non più, però è stato un passaggio importante della mia vita. A diciassette anni mi appassiono di opera, finito il liceo artistico provo al Conservatorio di Milano e mi prendono. Intanto porto avanti anche gli studi di arte, mi perfeziono con Roberto Coviello e debutto come baritono a ventitrè anni. Dopo dieci anni, tuttavia, mi accorgo che non mi basta, che nel canto potevo arrivare fino a un certo livello, mentre io per natura punto sempre a ottenere il massimo da quello che faccio. E mi mancava tutto quello che era la parte pratica dell’arte, con la quale mi ero formato. Così mi sono iscritto all’Accademia delle Belle Arti di Carrara: ormai vivevo molto male il cantare, quindi dopo essermi laureato in decorazione ho lasciato la carriera musicale per dedicarmi a ciò da cui avevo cominciato.”
E qui mi previeni, giacché la seconda parola che avevo scelto per te è proprio ARTE.
“L’arte è creazione, sviluppo, appropriazione, evoluzione… questo è quello che spiego anche ai giovani cantanti con cui lavoro nelle opere-studio (un format che amo). Pensa a quanti cantanti ascoltiamo anche in grandi teatri che non sono artisti, ma si limitano a ripetere una partitura… anche questo mi stava stretto dell’attività di cantante. Il regista per me è colui che si adopera per la realizzazione di una visione completa: io non riesco a pensare separatamente alle scene, alle luci, ai costumi e ai movimenti scenici. Tutto si compenetra. E per questo il regista deve essere un artista, altrimenti è un vigile urbano che dice ‘Tu entri da qui, tu esci da lì’.”
Sai che questa è una vexata quaestio nel nostro mondo… cosa sia un regista e cosa debba e possa fare…
Quando dico che il regista è un artista, non intendo per forza un artista di rottura, che dia scandalo. Riuscire, invece, a mettere in scena un’opera seguendo il libretto e conciliandolo alla propria visione: lì sta il talento dell’artista, non sconvolgendo tutto l’apparato originario. Secondo me in questa direzione si può lavorare ancora tanto.”
La terza parola che ti sottopongo è un po’ la summa delle prime due: OPERA. Com’è il tuo modus operandi di regista?
Prima di tutto ascolto, con lo spartito davanti e un taccuino, perché mentre ascolto inizio a disegnare, fare schizzi e bozzetti di scene e costumi. Di solito non ho un’idea pregressa, ma mi lascio ispirare dal primo ascolto. Non riesco a capire chi fa il mio lavoro e non sa leggere la musica, perché per me è fondamentale: capire la lunghezza di determinate note e soprattutto delle pause mi aiuta a dare ritmo a una regia.
Hai avuto dei Maestri?
“Mi sono diplomato all’Accademia per l’Opera Italiana di Verona, e chi mi ha insegnato questo mestiere è senza dubbio Marco Gandini. Lui mi ha insegnato che il compito del regista non è gettare tramite il proprio lavoro sugli interpreti i propri problemi, ma chi sa creare un clima sereno per tutti in grado di costruire cose belle. Per questo amo arrivare alla prima prova già con un’idea registica e una dinamica scenica ben chiare, senza cambi in corso d’opera, per evitare turbamenti e tensioni al cast.”
Con la quarta parola voglio focalizzarmi un attimo sulla tua carriera più recente: CANARIE. Ti dice niente? (Lo stuzzico e ride, giustamente, ma senza compiacimento.)
“Negli ultimi tempi ho lavorato tanto al Teatro Pérez Galdós di Las Palmas de Gran Canaria: ho iniziato nel Febbraio dell’anno scorso come scenografo per Carlo Antonio de Lucia in “Manon Lescaut”, e poi mi hanno incaricato della regia di “Un ballo in maschera”, “Les contes d’Hoffmann”, “Fedora” e il prossimo Marzo ci sarà “Aida”. È un contesto dove amo lavorare, mi accordano molta fiducia e cerco di ricambiarla con la massima professionalità. Prossimamente sempre a Las Palmas farò le scenografie per “La Gioconda” e quest’estate al Festival Belcanto Ritrovato di Pesaro curerò la regia del “Birraio di Preston” di Ricci. Mi sento molto fortunato a lavorare tanto, e spero di riuscire sempre meglio che posso.”
Sono certo che sarà così – La mia ultima domanda non è una parola chiave, ma un grande classico delle interviste: sogni nel cassetto, artisticamente parlando, ne hai?
“Beh certo, come tutti… Magari ti sconvolgerò, ma il mio sogno è di dirigere qualcosa di bello anche in prosa, non solo nell’opera. Ad esempio farei di tutto per portare in scena delle commedie di Eduardo: sento molto “miei” i suoi ritmi, oltre che la genialità dei testi – infatti anche nell’opera amo molto i toni leggeri, Rossini… Per questo mi piacerebbe molto anche lavorare a “Le convenienze e inconvenienze teatrali” di Donizetti.
Hai uno spirito belcantista!
“Assolutamente sì, preferisco l’opera di inizio Ottocento ai drammoni strappalacrime del verismo… anche se mi proponessero “Così fan tutte” sarei al settimo cielo.”
Non possiamo far altro che augurarglielo.