Torino, Teatro Regio, Stagione d’Opera 2023
“IL BARBIERE DI SIVIGLIA”
Opera buffa in due attu su libretto di Cesare Sterbini, tratto dall’omonima commedia di Pierre Beaumarchais.
Musica di Gioachino Rossini
Il Conte d’Almaviva NICO DARMANIN
Figaro RODION POGOSSOV
Rosina MARA GAUDENZI
Don Bartolo RICCARDO NOVARO
Don Basilio GUIDO LOCONSOLO
Berta IRINA BOGDANOVA
Fiorello e Un Ufficiale ROCCO LIA
Orchestra e Coro del Teatro Regio di Torino
Direttore d’orchestra Diego Fasolis
Maestro al fortepiano Carlo Caputo
Maestro del Coro Andrea Secchi
Regia Scene e Costumi Pierre-Emmanuel Rousseau
Luci Gilles Gentner
Allestimento Opéra National du Rhin (Strasburgo) in coproduzione con Opéra de Rouen Normandie.
Torino, 4 febbraio 2023
Gli aspetti fondamentali dello spettacolo e del cast iniziale sono già stati affrontati brillantemente, sotto questa testata, dalle note del collega Giordano Cavagnino.
Qui accostandoci al cast alternativo, vorremmo comunque rinforzare l’apprezzamento per la direzione di Diego Fasolis. Il direttore luganese possiede la chiave di volta per un’esecuzione assolutamente strabiliante. La sua prassi attinge all’esperienza barocca “culturalmente avvertita” e da questa mutua un trattamento essenziale, ma non arido dello strumentale. L’Orchestra del Teatro Regio di Torino recupera una insolita brillantezza e una sorprendente flessibilità. Rimane impresso, tra gli altri, l’accompagnamento del duetto Conte-Figaro dell’atto primo “all’idea di quel metallo”, mai così leggero, svolazzante ed aereo. Non si contano quante son le volte che, nel corso della recita, l’orchestra si è integrata col palcoscenico, rinforzando il suono del canto. La calunnia ne ha proficuamente usufruito. Non possiamo esimerci dal complimentare il Teatro Regio che, dopo l’Agnese di Paer del 2020, abbia richiamato Fasolis per questo Rossini che, dopo troppe riprese di routine, necessitava di una salutare rinfrescata. Nel cast si conferma il Conte di Nico Darmanin, che, tranne la prima, ha cantato in tutte le repliche. Il tour de force gli ha irrobustito sia la prestanza scenica che la sicurezza musicale. Questa, del 4 febbraio, è sicuramente la migliore delle tre a cui abbiamo assistito. Finalmente c’era il Rondò finale, con una apprezzabile qualità del canto, evidentemente frutto di studio e buona scuola, ha evitato di impegolarsi in rischiosi virtuosismi fuori ordinanza. È purtroppo nuovamente mancato l’applauso all’”ecco ridente in cielo”, in vero molto ben eseguito, ma è per tempi teatrali mal calcolati, con un intervento precipitoso della battuta di Fiorello “mio signore”. Alla regia si dovrà poi imputare che, nel travestimento da soldato, la finta ubriacatura sia prosegua fino alla fine dell’atto, con conseguenti stucchevoli gags, come si trattasse di un’ebbrezza reale e non simulata; nelle vesti di Sor Alonso poi, dimenandosi come una marionetta, pare gli si faccia dimenticare del tutto di essere un Grande di Spagna. Rodion Pogossov, baritono russo che da un ventennio, fuor d’Italia, impersona Figaro. Finalmente un timbro baritonale, quasi introvabile ormai nei nostri teatri. Con “molto buon gusto” indossando sul petto tatuato uno stracciato bolerino da torero, fa la sua entrata in scena, fuggendo da un postribolo, inseguito da una lavoratrice del posto, e attacca a spronbattuto con ardimento e sfrontatezza la sua celeberrima cavatina del factotum. Bel timbro, porgere risoluto, assoluta sicurezza. È un piacere ascoltarlo. I problemi sorgono coi recitativi, ben ritmati, veementi ma completamente inintelligibili. Per molti stranieri, l’articolazione sillabica italiana continua ad essere assai ardua. Sempre con una certa protervia, si muove spigliato sulla scena. Ha due vezzi evidenti: è troppo attaccato alla bottiglia di rosatello, se la porta continuamente alla bocca e ne tracanna; forse considera da gay le mollezze e le indecisioni del Conte, per cui ne respinge manifestatamente il contatto fisico. Temiamo che, anche questi scivoloni di gusto, facciano parte di una traviata visione francese, tale è la regia, della commedia italiana. Ragguardevole Rosina della serata è Mara Gaudenzi, giovane e talentuosa romagnola dal caldo timbro mezzosopranile. Ha una ragguardevole presenza scenica ed è assai spigliata nell’azione; si avventura nella parte, senza incertezze e con moderazione, evita di strafare. Senza prendersi troppi rischi: La cavatina e la lezione di canto le escono encomiabili. È sempre brillante nei recitativi e tiene testa, con disinvoltura, al conte e al tutore nei duetti. Nei concertati occupa, con efficace saldezza, le sue posizioni. Senz’altro positivo questo suo esordio torinese. In tono minore è il Don Bartolo di Riccardo Novaro. Buona la sua prestazione scenica e nei recitativi, la voce, in questa occasione torinese, tende ad affievolirsi nel cantabile. Il timbro è chiaro e piacevole. Il portamento da gran signore, lo troverebbe interprete ideale in molti ruoli nobili dell’opera seria. Certe voci poi trovano maggior valorizzazione negli spazi contenuti dei teatri sette-ottocenteschi che non nelle grandi platee dei teatri moderni.Le prestazioni di Guido Loconsolo (Don Basilio), Irina Bogdanova (Berta) e di Rocco Lia (Fiorello e Un Ufficiale) non si discostano da quanto già detto da chi ha commentato la recita del primo cast. Il Coro del Teatro Regio di Torino, guidato dal suo Maestro Andrea Secchi, ha confermato l’efficacia e la professionalità che gli sono consueti.Le scene del Teatro Regio, nei suoi 50 anni di esercizio, dopo la rinascita, hanno ospitato per ben 12 stagioni il Barbiere. Troppe volte se paragonato all’assenza assoluta, oltre che dei capolavori del periodo napoletano, di Otello, della Gazza Ladra e della Donna del Lago. Per giustificare questa ennesima riproposizione, come apertura di stagione, si sarebbe dovuto puntare in alto. Obiettivo raggiunto per quel che concerne la realizzazione musicale, sia per una direzione stellare che per dei cast di tutto rispetto se non di eclatante rinomanza. Lo spettacolo ha sollevato, anche tra il pubblico della platea, molte perplessità. Si rispecchia sul palco la tipica incomprensione d’oltralpe per la comicità dell’opera buffa italiana: che è semi-seria, e non ha nulla a che spartire con la farsa della commedia dell’arte e dei film boccacceschi. Il pubblico, spontaneamente numeroso, non si notavano ingressi di giovani “per riempire”, si è comunque assai divertito e ha prolungato gli applausi finali col rischio di perdita dell’ultima corsa dei mezzi pubblici. Problema questo che assilla molti spettatori lasciando indifferenti e inoperosi tanti teatri.