Genova, Teatro Carlo Felice, Stagione lirica 2022-2023
“TOSCA”
Melodramma in tre atti su libretto di Giovanni Giacosa e Luigi Illica, dal dramma omonimo di Victorien Sardou.
Musica Giacomo Puccini
Floria Tosca MARIA JOSÈ SIRI
Mario Cavaradossi RICCARDO MASSI
Il barone Scarpia AMARTUVSHIN ENKHBAT
Cesare Angelotti DONGHO KIM
Il sagrestano MATTEO PEIRONE
Spoletta MANUEL PIERATTELLI
Sciarrone CLAUDIO OTTINO
Un carceriere FRANCO RIOS CASTRO
Un pastore MARIA GUANO
Orchestra, Coro, Coro di voci bianche dell’Opera Carlo Felice Genova
Direttore Pier Giorgio Morandi
Maestro del Coro Claudio Marino Moretti
Maestro del coro di voci bianche Gino Tanasini
Regia, scene e luci Davide Livermore ripresa da Alessandra Premoli
Costumi Gianluca Falaschi
Allestimento della Fondazione Teatro Carlo Felice di Genova
Genova, 26 febbraio 2023
La Tosca che felicemente il Teatro Carlo Felice rimette sul palco è quella, fantasiosamente barocca, di Davide Livermore, già sul palco genovese nel 2014. È stata ora scrupolosamente ripresa da Alessandra Premoli e argutamente vestita da Gianluca Falaschi. Uno sghembo palco rotante, sospeso su palafitte, si muove rivelando, da differenti angolazioni, “viste” variate di Sant’Andrea della Valle, del gran salone nobile di Palazzo Farnese e degli spalti di Castel Sant’Angelo. La mobilità circolare dell’allestimento giova efficacemente alla drammatizzazione della vicenda e ai caratteri contrastati dei protagonisti. Non si indugia mai sul “realismo” di una vicenda che potrebbe anche sfociare in un becero verismo, spingendo di forza Puccini in un’enclave da cui lui ha sempre scrupolosamente segnato le distanze e mantenuto le linee di demarcazione. Si potrebbero forse rimproverare alla regia gli eccessi “barocchi” delle continue passeggiate di figuranti in tonache e in polpe, o un Te Deum in pompa magna tra piviali, cotte e sottane trapuntate d’oro e d’argento. Efficacissime invece le lunghe balaustre, anch’esse ruotanti col resto dell’attrezzaggio, invase da veri ceri fiammeggianti, fumiganti e odoranti all’atto della finale consunzione. Maliziose e rivelatrici sono poi le sopravvesti di Scarpia e Tosca: stesso prezioso velluto, stessa tonalità di rosso e stesse bordure d’oro. È evidente che per il regista i due son fatti l’uno per l’altra. La coppia fatale potrebbe essere quella che sancisce l’unione tra la torturata assassina e il torturatore vittima. L’unione della cantante con l’artista sventato che fa il farfallone con le Attavanti di passaggio, potrebbe essere solo un fortuito incidente di percorso. Da questi sinuosi ed ambigui rapporti discende ineluttabile l’efferato accoltellamento di Scarpia: mille pugnalate al petto e alla schiena non son tipiche di chi ha schivato uno stupro ma, forse, di chi l’ha invano desiderato. Anche la fine di Tosca rivela il calibrato calcolo di una intelligente regia. L’Angelone semovente di Castel Sant’Angelo non funge da tramite ma da inorridito testimone della volontaria mortale caduta della protagonista, lei cade infatti, non casualmente, proprio nello stesso avvallamento di scena in cui si spense il trucidato Scarpia. La Floria Tosca di Maria José Siri e il Barone Vitellio Scarpia di Amartuvshin Enkhbat si sono mostrati, a Genova, le incarnazioni ideali per questo fatale rapporto. Il soprano Uruguayano ha dato prova di sorprendente maturità e completezza di interprete. Il timbro non è fascinoso e la tecnica, a volte, non è completamente convincente, ma il coinvolgimento nella carnalità del personaggio è assoluta. Tutti i duetti e tutte le parti dialoganti vengono messe perfettamente a fuoco. Nel duetto in chiesa del primo atto, inonda di calda passione un impacciato Cavaradossi. Sa pure, a Palazzo Farnese, con temperamento e con esuberanza vocale, tener testa alla foia libertina di Scarpia. Vissi d’arte, pur di gran scuola, è stretto da un timbro avaro di risonanze e di espansione lirica. La Lama, sugli spalti di castel Sant’Angelo non è di corrusco acciaio, ma di luccicante e fragile cristallo. Amartuvshin Enkhbat, si mostra baritono dal magnifico timbro, omogeneo e sonante in tutta l’estensione della parte. Non accusa mai debolezze nel canto ed è sempre e comunque sicuro e convincente. Ha ormai raggiunto una consapevolezza d’interprete che, in un cantante non di lingua italiana, desta meraviglia. Le sue prestazioni lo collocano sicuramente ai vertici mondiali delle voci baritonali. Riccardo Massi è un Cavaradossi a cui, i due “mattatori” di cui sopra, non cedono volentieri gli spazi che gli competono. In tutti i duetti e nelle frasi di conversazione sfoggia un canto maschio ed appassionato. Il “vittoria, vittoria” sfolgora di baldanza. Qual occhio al mondo e Amaro sol per te m’era il morire sono di un lirismo avvincente, fondato su un affascinante brunitura del timbro e sull’efficacia dell’accento. Recondita armonia inizia con la passione e l’empito che le conviene, si smorza poi, forse per una momentanea stanchezza. Fascinoso il Lucean le stelle, appassionatamente sussurrato fino ai sensuali accenti dei veli disciolti. Un particolare apprezzamento va alla prova, come Sacrestano, di Matteo Peirone. Non solo canta bene, ma soprattutto è attore di encomiabile misura in una parte normalmente massacrata da gags volgari e inopportune. Dongho Kim Angelotti, Manuel Pierattelli Spoletta e Claudio Ottino Sciarrone, tutti e tre inappuntabili, hanno ben onorato la loro esperienza di palcoscenico. Franco Rios Castro ha reso plausibile l’avidità dell’impietoso carceriere. La tenera Maria Guano, con la solita cantilena fanciullesca, ci ha ben sciorinato lo stornello del Pastorello. Il Coro del Teatro Carlo Felice, sotto la guida di Claudio Marino Moretti, e congiuntamente a quello di voci bianche guidato da Gino Tanasini, ci hanno deliziato con un portentoso finale dell’atto primo culminante nel Te Deum che tutto il pubblico impaziente si aspetta. La perizia, la sensibilità e il mestiere del Maestro Concertatore Pier Giorgio Morandi hanno suggellato la bellissima riuscita della pomeridiana domenicale. Il pubblico che garantiva il tutto esaurito per il teatro, ha esternato il proprio entusiasmo con ripetute e insistite chiamate a proscenio degli artisti che ha poi sommerso di altrettanto insistiti e sonori applausi. Tra il pubblico non si poteva non notare ed ammirare la presenza di una entusiasta e in formissima Renata Scotto, amata e mai dimenticata stella di prima grandezza del teatro d’opera.