Firenze, Teatro del Maggio Musicale Fiorentino: “Doktor Faust”

Firenze, Teatro del Maggio Musicale Fiorentino, Stagione 2022/2023
“DOKTOR FAUST”
Opera in tre quadri, con due preludi e un intermezzo
Libretto e Musica Ferruccio Busoni
Doktor Faust DIETRICH HENSCHEL
Mephistopheles DANIEL BRENNA
Wagner/Maestro di cerimonia WILHELM SCHWINGHAMMER
Il Duca di Parma/Soldato JOSEPH DAHDAH
La Duchessa di Parma OLGA BEZSMERTNA
Un tenente FLORIAN STERN
Tre studenti di Cracovia MARTIN PISKORSKI, MARIAN POP, LUKASZ KONIECZNY
Teologo/Gravis DOMINIC BARBERI
Studente di legge/Levis MARCELL BAKONYI
Naturalista/Asmodus ZACHARY WILSON
Quattro studenti di Wittenberg MARTIN PISKORSKI, FRANZ GÜRTELSCHMIED, MARIAN POP, FLORIAN STERN, EWANDRO STENZOWSKI
Beelzebuth FRANZ GÜRTELSCHMIED
Megäros EWANDRO STENZOWSKI
Voci femminili MARIIA KOKAREVA, OLHA SMOKOLINA, ALEKSANDRA METELEVA
Figuranti speciali ELENA BARSOTTI, CAROLINA BRAUS, MAYA QUATTRINI, EMANUELE MARCHETTI, FRANCESCO PACELLI, LEONARDO PAOLI
Orchestra e Coro del Teatro del Maggio Musicale Fiorentino
Direttore Cornelius Meister
Maestro del coro Lorenzo Fratini
Regia Davide Livermore
Scene Giò Forma
Costumi Mariana Fracasso
Luci Fiammetta Baldiserri
Video D-Wok
Nuovo allestimento Teatro del Maggio Musicale Fiorentino
Firenze, 11 febbraio 2023
La Sala Grande del Maggio viene tacciata di essere troppo grande per un Doktor Faust, e allo stesso tempo non abbastanza grande per una Traviata (ripresa): quando la colpa non è certo della sala, ma del pubblico, talvolta svogliato e indolente. Che invece, almeno in questa seconda recita, si è fatto onore per presenza ed attenzione. Complice l’allestimento proiezionocentrico, quindi appariscente e perennemente inquieto, dell’ubiquo Davide Livermore, con scene di Giò Forma e video di D-Wok, la premiata ditta. Il regista parte dalla constatazione, inappuntabile, che molto c’è di autobiografico nel Faust di Busoni, ma poi non va molto più lontano: e si limita ad estendere la premessa a tutti gli altri personaggi. Che Mefistofele e Faust siano due io di Busoni, siglanti il loro patto con un bacio alla francese, sarà bello o sarà brutto, ma indubbiamente a teatro funziona. Che chiunque sollevi di tanto in tanto una faccia di Busoni invece sa un po’ di forzatura o, forse è peggio, di approssimazione. Perché poi, oltre al tema del doppio (e triplo, e quadruplo, etc. …) sfilano festose e timbrano i loro cartellini tutte le altre tipiche copertine di Linus da regista: come sedie, poltroncine da psicoterapia, medici di candidi camici vestiti in clinica psichiatrica primonovecentesca, rottura della quarta parete con coro che entra dalla platea, micidiale torcia acceca-pubblico in mano al soldato senza nome (Valentino in Goethe), anche lui entrato dalla platea, panciotti, cravatte, e simili. Conditi con movimenti scenici di grande impatto ma non altrettanto grande significato: come, nel finale, sollevare lentamente Faust sulla sua poltroncina psicanalitica, avvolto nel cono di luce che dà quell’inevitabile sensazione di rapimento alieno. Oppure, ancora, sollevare a mezz’aria un gran coda (finto) con a bordo Faust, la Duchessa di Parma, e un satiro (vistosamente e villosamente dotato, evidente simbolo del desiderio più bestiale, e dunque autorizzato ai più tipici gestacci). E infine la carrozzina: toccante, se non fosse lo spettro della corazzata dello scalognato ragioniere ad adombrarne la poesia. Questi indizi, gravi, precisi e concordanti, suggeriscono che l’imputato, costretto ad una sobrietà di bilancio che mal si addiceva alla propria non sobrietà estetica e stilistica, si sia ritrovato alquanto spaesato, e per questo abbia fatto ricorso ai tipici escamotage della regia imbarazzata. Il puntare tutto sull’esuberanza delle continuamente cangianti proiezioni ha tuttavia una certa coerenza con l’idea busoniana dei pannelli giustapposti e del teatro come luogo del fantastico, della meraviglia, dello stupore, delle marionette: insomma lo spettacolo regge, ed è tecnicamente ben realizzato, ma non si tratta di una regia che getti nuove luci su quest’opera. La direzione di Cornelius Meister, più contrastata che sfumata, e tendente all’esuberanza sonora, ha un passo teatrale incalzante ed energico, con un fraseggio di grande respiro, ad ampi archi di lettura. Assecondata, naturalmente, dall’altissimo livello dell’orchestra fiorentina: per la quale il titolo offre buone occasioni di mettersi in mostra, tutte colte. Lo stesso vale per il coro che si conferma ottimo, anche scenicamente. Dietrich Henschel, rodato protagonista, è scenicamente superlativo, e fraseggiatore astuto; la voce non è di enormi dimensioni e il timbro piuttosto opaco, che sembra aver perso di smalto. Più in difficoltà Daniel Brenna alle prese con l’arduo ruolo di Mefistofele: ha centri saldi e timbro non ingrato, con bel colore, ma la sicurezza scende salendo agli acuti, e il ruolo ne richiede sin dall’inizio, sicché difetti d’intonazione anche minimi diventano parecchio evidenti; e sempre in agguato sta il rischio di scivolare nell’emissione nasale. Joseph Dahdah, tenore dal duplice ruolo, ha timbro meno fascinoso ma voce più solida (e scrittura meno scomoda).Olga Bezsmertna (Duchessa di Parma), è un raggio di luce che rischiara la cupa inquietudine di quest’opera tutta maschile (e pensare l’Ur-Boris di quanto la preceda!), tecnicamente ottima, suoni belli e pieni anche negli acuti, senza fastidiose fissità. Il resto del cast è di alto livello, e omogeneo. L’elemento di maggior interesse di questa produzione, dopo il titolo di ingiustamente rara rappresentazione, e dalle ancora inesplorate potenzialità, è la direzione di Meister. Foto Michele Monasta