Venezia, Teatro La Fenice, Stagione Sinfonica 2022-2023
Orchestra del Teatro La Fenice
Direttore Ton Koopman
Johann Sebastian Bach: Suite per orchestra n. 4 in re maggiore bwv 1069; Franz Joseph Haydn: Sinfonia in sol minore Hob.I:83 “La Poule”; Felix Mendelssohn Bartholdy: Sinfonia n. 5 in re maggiore op. 107 “Riforma”
Venezia, 7 gennaio 2023
Il grande repertorio, afferente alla cultura musicale austro-tedesca, è tornato alla Fenice con il concerto, che ha visto come protagonista, sul podio dell’Orchestra del teatro veneziano, Ton Koopman, direttore, organista e clavicembalista olandese, figura di riferimento nel campo dell’interpretazione della musica barocca e di Bach.
Proprio nel nome di Bach si è aperta la serata, con la Suite per orchestra n. 4, probabilmente composta dal sommo maestro, durante il suo soggiorno a Köthen (1717-1723), presso la corte del principe Leopoldo di Anhalt-Köthen: anni fecondi, in cui nacquero, tra l’altro, il Clavicembalo ben temperato e i Concerti Brandeburghesi, insieme appunto – si presume – ad alcune delle Suite per orchestra. Nell’ampia Ouverture tripartita si è assolutamente apprezzato il dialogo tra il nutrito stuolo di fiati (oboi, trombe e fagotti) e gli archi, che ricorda quello tipico del concerto grosso. Un dialogo tra varie parti dell’orchestra dominava autorevolmente anche nella prima Bourrée, basata su una tecnica di tipo imitativo, mentre nella seconda il fagotto – al di là della sua funzione di “continuo” – creava, con precisione e padronanza tecnica, un elaborato tappeto sonoro sotto le note lunghe degli oboi. Trombe e timpani, violini e oboi, fagotto e basso continuo hanno interagito con grande eleganza nella Gavotte. Eleganza che si è riscontrata anche nei due Menuet, entrambi di misurata leggerezza. Nell’ultimo movimento, Réjouissance, l’orchestra – sapientemente guidata da Koolman – ha brillato nell’affrontare il virtuosismo di questa pagina – caratterizzata dal ritmo serrato e dal ricorso ripetuto alla fanfara di trombe e timpani – a degna chiusura di un pezzo di intrattenimento, musicalmente straordinario.
Passando alla Sinfonia n. 83 di Haydn, essa risale all’ultimo periodo (tra il 1785 e il 1786), in cui Haydn operò presso la corte del principe Esterházy. Nonostante avesse ridotto la sua attività di compositore di musica strumentale, per dedicarsi a quella di organizzatore di stagioni operistiche, continuavano a giungergli anche allora, da più sedi europee, richieste di nuove sinfonie. Tra le tante accettò quella del Concert de la Loge Olympique di Parigi, che gli commissionò una serie di sei sinfonie. Tali sinfonie – presentate a Parigi nel 1787 con enorme successo – furono concepite, come le future “londinesi”, a dimostrare la capacità di proporre una varietà di stili, pensati per un determinato complesso orchestrale. La Sinfonia n. 83 è l’unica in modo minore, nonché la sola segnata da evidenti contrasti: come quello tra l’inizio della composizione in minore e la sua conclusione in maggiore. Ricca di energia ma anche duttile, nel sottolineare sfumature e contrasti, è risultata la concertazione del maestro olandese. Nel primo movimento, Allegro spiritoso, era particolarmente marcato il contrasto tra i due temi: quello iniziale, drammatico e quasi stürmisch, reso armonicamente non risolto da una nota estranea all’accordo di tonica; il secondo, dal tono galante e ironico, nel quale una figura puntata dei flauti è all’origine del riferimento al pennuto animale, che contraddistingue la sinfonia. Dopo lo Sviluppo, dove l’orchestra ha affrontato con sensibilità e rigore encomiabili le elaborazioni cui vengono sottoposti i due temi, si è giunti alla riconciliante conclusione della Ripresa. Una vena ironica ha percorso il Menuet, basato su una successione di accenti spostati, interrotta dal Trio, ritmicamente più lineare, immerso in un’atmosfera quasi bucolica, dagli interventi del flauto. Nel conclusivo Vivace – più marcatamente gioioso, pur con un’eco ancora drammatica proveniente dagli archi – contrasti dinamici, momenti di sospensione del discorso e intrecci contrappuntistici hanno vivacizzato una spensierata Tarantella, alquanto contrastante rispetto all’inizio alla sinfonia.
Quanto all’ultimo titolo in programma, Mendelssohn, in procinto di comporre la Scozzese, alla fine del 1829 si dedicò assiduamente alla Sinfonia in re maggiore, in vista dell’imminente anniversario (1830) dell’Augsburger Konfession, primo atto ufficiale della Riforma protestante. Il compositore intendeva celebrare quella data – e la religione che professava, sebbene appartenesse a una famiglia originariamente ebraica – con una partitura di solenne intensità. Uomo profondamente religioso, lavorò con estrema passione alla nuova partitura, dove ritroviamo alcuni famosi temi liturgici. Diretta a Berlino dallo stesso Mendelssohn, fu accolta senza entusiasmo e poi ripudiata dall’autore, sicché la pubblicazione avvenne postuma, con il sottotitolo di “Riforma”, contrassegnata dall’ordinale “cinque”, seppure in realtà sia la “seconda” delle partiture sinfoniche mendelssohniane. Toni decisamente diversi hanno diffusamente caratterizzato l’esecuzione di questa sinfonia che, con buona pace del suo autore, meriterebbe una più assidua presenza nei programmi concertistici. Un’aura particolarmente solenne ha avvolto la lenta Introduzione (Andante), prima parte del movimento iniziale, dove gli ottoni hanno svolto magistralmente il loro ruolo determinante: si tratta di una pagina dal contrappunto arcaicizzante, che cita in apertura il Magnificat tertii toni e in chiusura, il celeberrimo Dresdner Amen, cadenza luterana, ripresa anche da Wagner nel Parsifal. Subito dopo è risuonato, perentorio, l’Allegro con fuoco, che rispetto al significato racchiuso nell’austera Introduzione (la fede incrollabile) esprimerebbe, con la sua concitazione, la violenza dei conflitti religiosi. Un tono più leggero ha caratterizzato l‘Allegro vivace, brillante e delicato, con l’intermezzo “pastorale” del Trio, mentre gli archi si sono imposti, per finezza esecutiva e cantabilità, nel breve Andante – malinconica “romanza senza parole”, inframezzata da un “recitativo” – dove prevalgono questi strumenti, a marcare il contrasto con il finale, aperto, senza soluzione di continuità, dal flauto solo. Ad quest’ultimo è affidato il Corale “Ein feste Burg ist unser Gott” (“Una salda fortezza è il mio Signore”), subito elaborato e ampliato dall’intera orchestra. Dopo lo Sviluppo, il movimento – con gli ineccepibili interventi di tutte le sezioni strumentali – si è caricato emotivamente all’apparizione di un motivo, carico di romantico fervore religioso. La conclusione – basata su una stentorea apparizione del Corale, in valori ritmici dilatati – ha concluso degnamente questo monumento celebrativo della Riforma. Entusiastici applausi per il Direttore e l’Orchestra.