Auditorium RAI “Arturo Toscanini”, di Torino. Stagione Sinfonica 2022-23. Ciclo Mendelssohn 19 – 20* gennaio 2023
Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI
Direttore Daniele Gatti
Felix Mendelssohn-Bartholdy:Sinfonia n.4 in LA Maggiore op.90 “Italiana” (1830-33. Rev.1834).Sinfonia n.5 in RE Maggiore op.107 “La Riforma” (1830-32).
Torino, 20 gennaio 2023
Il concerto fissa la serata conclusiva del ciclo Mendelssohn che Daniele Gatti, dopo i precedenti Ciclo Brahms 2021 (causa Covid con sala vuota) e Ciclo Schumann 2022, con l’Orchestra Sinfonica Nazionale RAI ha voluto dedicare alle sinfonie di Mendelssohn. Il ciclo, di tre concerti, comprendeva le 5 sinfonie numerate ed escludeva le 12 giovanili (composte dagli 11 ai 15 anni dell’autore) per soli archi. Un peccato visto che la prima di quelle numerate, pur essa composta a 15 anni, è in derivazione diretta da quelle, con la sola aggiunta di legni e timpano. L’accostamento, con almeno un paio delle precedenti, avrebbe perfezionato l’impegno culturale che la RAI, con questi cicli, svolge. Non solo predella per l’esibizione di un grande direttore ma approfondimento della conoscenza dell’autore. Ciò premesso, l’esito delle esecuzioni è stato assai positivo. Gatti ha mostrato una straordinaria conoscenza delle opere eseguite; con la carta sul leggio, dava evidenza di poterne anche fare a meno. Il gesto è sempre stato chiaro e sicuro da venir raccolto e seguito, senza esitazioni, dai leggii. I piedi di Gatti sono sempre stati ben fissi sul podio, escludendo così ogni teatralità gratuita e risparmiandoci i ridicoli acrobatismi di tante altre bacchette di fama. Direzione quindi di grande civiltà ed efficacia che pubblico e orchestra hanno massimamente apprezzato.
Un’Italiana, in avvio di serata, limpida che esalta la “forma” senza farsene imprigionare. Le melodie, sempre così reticenti e poco espansive in Mendelssohn, risuonano sbalzate e prendono una consistenza non smancerosa; il ritmo, il finale saltarello ne è d’esempio, è travolgente ma non sfacciato. Sostanzialmente domina una spigliatezza ammorbidita dal senso della misura che esclude sia la secchezza che l’eccessivo turgore del contesto orchestrale. Un meraviglioso equilibrio delle forze che esalta autore ed esecutore, senza deludere il pubblico.
Nessun intervallo ristoratore. Si passa alla “Riforma”, quinta per numero di catalogazione solo perché a Mendelssohn non piaceva e poneva ostacoli alla pubblicazione. La carta vide infatti la luce solo nel 1861, Felix trapassato da ben 14 anni. Il poveretto se ne era andato, quasi di botto, a 38 anni, pare per rottura di un aneurisma cerebrale. Si narra che la sua sia stata una vita felicissima. Non per nulla si è Felix. Però, nel fatale 1847, muore, per embolia cerebrale, Fanny, la sorella amatissima, anch’essa valida compositrice, concorrente e cooperante col fratello. Felix si dispera, cade in una prostrazione depressiva e va alla tomba dopo poche settimane.
L’occasione per la “Riforma” viene dalle celebrazioni per il trecentesimo anniversario della Riforma di Lutero. I Mendelssohn sono ebrei di nascita, ricchi banchieri di Amburgo si trasferiscono a Berlino (anni 20 dell’800), ormai sede del Reich tedesco, e qui trovano una società e dei regolamenti fortemente discriminanti. Per poter continuare a vivere ed operare, come si conviene ad una doviziosa famiglia dell’alta borghesia prussiana, si fanno battezzare e si prendono un altro cognome tipicamente locale, Bartholdy.
Felix ha sempre impellente la necessità di dimostrare la sua aderenza al luteranesimo: e giù a comporre cantate e oratori da tempio e musiche per organo e corali e la sinfonia n.2 lobgesang (questa sì tronfissima, a dispetto della imperturbabile moderazione di Gatti) e la n.5 “La Riforma”.
La sinfonia prende avvio con una ventina di battuta di un “andante” che la fanfara degli ottoni fa sfociare nell’Amen di Dresda, motto emblematico che Wagner trasformerà, nel Parsifal, nel leitmotiv del sacro Graal. L’Amen viene intonato per ben 2 volte dagli archi e sporadicamente poi ripreso dall’orchestra nel corso di questo movimento iniziale, conferendo allo stesso una severa solennità.
Si va poi, nei due tempi successivi, a moderate feste nel prato del retro-tempio, dove tra sciroppi di mele e di ribes si gustano dolcetti all’avena e allo zenzero. Qualcuno fa pure due passi in più, fino al Caffè Zimmermann, di bachiana memoria, a sorseggiare una birra spumeggiante. Tutti si ritrovano finalmente, in chiusura di giornata e di sinfonia, in chiesa per intonare l’inno nazionale della Riforma: il corale di Lutero Ein feste Burg ist unser Gott (il nostro dio è una salda fortezza). E lo ripetono e lo ripetono fino allo sfinimento. E ci si mettono tutti, persino strumenti che l’orchestra la frequentano poco: il controfagotto, il trombone basso e l’improbabile cimbasso, ottone arzigogolato dalle fattezze barocche e dal cupo suono romantico.
L’auditorio RAI, cospicuamente popolato, s’è mostrato solidale nel giubilo. Gli applausi, dal palco e dagli spalti, hanno occupato qualche abbondante minuto. Direttore e orchestra ne escono come meglio non ci si sarebbe potuto augurare. Il pubblico torinese conquistato: applaude. Qualche ciclo appetitoso, dopo Brahms Schumann e Mendelssohn, rimane e Gatti dovrebbe approfittarne per il suo curriculum e per il nostro piacere.