Bologna, Teatro EuropAuditorium, Stagione Opera 2023
“DER FLIEGENDE HOLLÄNDER”
Opera romantica in tre atti, libretto e Musica di Richard Wagner
Daland PETER ROSE
Senta ELISABET STRID
L’Olandese THOMAS JOHANNES MAYER
Erik ADAM SMITH
Mary MARINA OGII
Timoniere di Daland PAOLO ANTOGNETTI
Figuranti della Scuola di Teatro di Bologna “Alessandra Galante Garrone”
Orchestra e Coro del Teatro Comunale di Bologna, Coro del Teatro Municipale di Piacenza
Direttore Oksana Lyniv
Maestri del coro Gea Garatti Ansini, Corrado Casati
Regia Paul Curran
Scene e costumi Robert Innes Hopkins
Luci Daniele Naldi
Visual designer Driscoll Otto
Nuova produzione del Teatro Comunale di Bologna
Bologna, 28 gennaio 2023
Inaugurazione di stagione 2023 con un titolo di un cittadino onorario bolognese, Riccardo Wagner, uno di quei cinque che hanno avuto la loro prima italiana proprio qui, e che la direttrice stabile Oksana Lyniv ha già diretto, scusate se è poco, a Bayreuth: L’Olandese volante. Fare teatro senza teatro è dura.
La sala felsinea progettata dal Bibiena, senza tema d’esagerare, è una delle più belle al mondo: chi non se ne fosse ancora accorto, ci farà caso adesso che è chiusa per ingenti lavori di ristrutturazione. E dopo averci fatto caso, ci farà anche il callo perché i lavori non dureranno meno di alcuni anni e la vita teatrale deve andare avanti lo stesso. Però si chiede gentilmente al pubblico di fare la tara. Davanti ad impossibilità oggettive, come l’assenza di graticcia, la soluzione inevitabile è consegnarsi alle proiezioni. Le quali però sono terribili usuraie, ricattatrici: con le proiezioni e le retroproiezioni finisce che ti leghi mani e piedi, davanti e dietro, e poi non c’è modo di gestire le luci senza dar vita ad ombre piuttosto fastidiose. Le proiezioni, prerogativa del teatro essendo l’essere in carne ed ossa, sono strumento anti teatrale per eccellenza: difficilissime da gestire, e quindi da temere, ma non da disdegnare. È poi, forse, uno strumento che deve ancora pervenire ad una propria maturità stilistica. Andiamo invece nel merito della regia di Paul Curran (che, ricordiamolo, quando aveva a disposizione un teatro vero lo faceva funzionare a meraviglia, come ha dimostrato nell’Ariadne della scorsa stagione). Il naturalismo romanticone di onde, scogli, nuvole e vascelli, Giudici ammonisce, è stato storicamente superato già dall’allestimento di Dülberg diretto da Klemperer alla Kundry di Berlino nel 1929. E invece noi le onde le abbiamo, non cattivo segno: perché in effetti sarà anche vero che si può dare una lettura freudiana dei complessi di Senta, protagonista assoluta, vittima del mondo borghese che la circonda, e tuttavia le atmosfere sonore e le tinte timbriche evocano qualcosa di più suggestivo d’un salotto borghese, o di qualche prisma astratto. E però poi il secondo atto appare invece molto meglio aggiornato ai ritrovati della regia tedesca: le filatrici lavorano in una fabbrica (in cui la disciplina è invero piuttosto molle), provviste di funzionali macchine da cucire. Di fabbriche se ne sono viste (e di ogni genere, anche di ventilatori) ma servivano a tracciare i lineamenti di un mondo d’affari (borghesi), di interessi (borghesi) e spiegare la decisione del buon padre (borghese) Daland di maritare la figlia all’Olandese pagante, con la stiva colma di tesori. Qui invece Daland somiglia più ad un ingenuo pescatore che ad uno scafato capitano di finanza, e l’Olandese più al leggendario fantasma che al di lui socio in affari. Delle due l’una.
La direzione della Lyniv è elettrizzata ed elettrizzante, energica, fiammeggiante, spumeggiante, inquieta. C’è quel carisma senza il quale una partiturona wagneriana del genere, ancorché ad alto tasso di melodismo italianeggiante, si sgonfia ed implode come le vele bucate del vascello fantasma. Se si volesse far un appunto: in guardia dal rischio di una sovreccitazione fracassona. Ma l’appunto è da girare ai riporti a fondo sala, al sistema di diffusione (o amplificazione?) più fantasma del vascello. Sempre magnifico il coro bolognese, anzi: i cori, bisogna dire, perché per l’occasione sono arrivati i rinforzi da Piacenza. La protagonista, Elisabet Strid, possiede un timbro non privo di lusinga per l’orecchio italiano, con certe morbidezze, una discreta rotondità, un bel colore, e tuttavia dai centri, saldi, salendo verso gli acuti, che la rendono timorosa, la voce si fa aguzza, e talvolta si registrano piccole scivolate. Il fantasma, Thomas Johannes Mayer, nonostante la voce importante, si fa notare soprattutto per l’astuzia di interprete, capace di dosare il suono sul filo del percettibile, con effetti carezzevoli ma carichi di tensione. Il Daland di Peter Rose è scenicamente fin troppo simpatico, ma vocalmente ben più appropriato. La voce di Adam Smith, Erik, è una barra di metallo che niente può spezzare, né piegare: solidissima e dirittissima, raggiunge gli acuti inarcandosi leggermente verso la cavità nasale, senza tuttavia caderci dentro. Il timbro non è esattamente ammaliante ma lo strumento è di grande interesse.Il timoniere, Paolo Antognetti, ha invece un timbro più gradevole e un’emissione più sciolta, rilassata. Va detto che l’orchestra, tacciata da alcuni ascoltatori di eccessiva generosità sonora, non ha mai coperto le voci, tutte molto applaudite. Alcune perplessità soltanto per la direzione, soffocate dal trionfo tributato dalla stragrande maggioranza della sala alla Lyniv, e per l’allestimento che, come si è detto, doveva far fronte a limiti contingenti. E ora, rotta verso la nuova sala del Comunale Nouveau. Foto Andrea Ranzi