Torino, Auditorium RAI: James Conlon dirige Britten e Šostakovič

Torino, Auditorium RAI “Arturo Toscanini”, stagione Sinfonica 2022-23.
Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI
Direttore 
James Conlon
Benjamin Britten: Sinfonia da Requiem, op 20 (1940); Dmitrij Šostakovič: Sinfonia n.10 in mi minore op.93 (1953)
Torino, 16 dicembre 2022
L’OSN RAI ci ha proposto, in queste ultime due settimane, per il 6° e 7° concerto della stagione, un’accoppiata straordinaria, l’americano James Conlon, ritornato sul podio di quella che, per alcuni anni, era stata la sua orchestra, e Dmitrij Šostakovič. Conlon ha sempre mostrato una grande affinità con le musiche del pietroburghese e, la scorsa settimana, ha trionfato con l’orchestra gigantescamente ampliata a più di 110 elementi, con la 4° Sinfonia, capolavoro assoluto del suo autore. La 10°Sinfonia, di questa settimana, presenta molti più ostacoli e molte più ambiguità che impongono freni e cautele allo slancio dell’interprete. La 4°, del 1936, è di un autore trentenne, brillantemente emerso dalle fasi di studio e sperimentazione, che, libero e senza paure, affronta il futuro. Il blocco burocratico per “formalismo” che lo sta per colpire e che gli farà rimandare di quasi trent’anni la prima esecuzione pubblica della sinfonia, verrà dopo, ad opera compiuta. La 10° continua viceversa a soffrire per la cappa di oscurantismo e di paura, che benché Stalin sia morto da qualche mese, ancora incombe sull’URSS. Non è facile tener salde le divaganti linee di quest’opera. Conlon con la sua maestria di conduzione ci riesce, ma con gran fatica. Il primo tempo Allegretto che occupa quasi la metà dei 55 minuti dell’intera composizione, muove con un avvio oscuro, magnificamente intonato dagli splendidi archi bassi dell’orchestra. Nessun tema con respiro melodico emerge e si prosegue con una cantilena trapuntata da microscopici interventi, gruppi di poche note, delle prime parti dei legni: o acutissime di ottavino e oboe, o oscure e nebbiose di clarinetto e fagotto. Un malaugurante battere di timpani, ne segna ulteriormente l’accidentato percorso. A tre quarti del cammino si raggiunge un frastornante climax; non è la conclusione del tempo perché si ricade nuovamente nella sfibrante e caliginosa cantilena.
C’è chi ha visto nel gridato e, a tratti, triviale ed irruento secondo tempo Allegro, una rappresentazione della crudele malvagità di Stalin. Non ci pare sia così. Per essere grottesco e malvagio mancano i glissandi e le irridenti puntature agli estremi, acuti e bassi, sopra e sotto il rigo. Crediamo che le marcate velocità e sonorità siano elementi strettamente funzionali ad evitare il rischio di monotonia. Ancora più imbrigliati e sotto coltre nebbiosa gli ultimi due movimenti. Il terzo che con la sequenza Allegro-LargoPiù mosso richiama l’accoppiata, seppur congelata in una steppa siberiana, Scherzo-Trio di sinfonia classica. L’Allegro-Andante finale non ci fa poi emergere dal clima penitenziale che caratterizza tutta quanta la sinfonia. Magistrale è Conlon nel tener legato tutto quanto sarebbe, in altre mani, con altra bacchetta, destinato ad un completo noioso sfaldamento. Ad avvio di serata, a precedere la sinfonia del russo, era stata eseguita la rara Requiem Simphony di Benjamin Britten. L’opera fu composta dall’autore ventisettenne, quando, da rifugiato con il suo compagno, il tenore Peter Pears, viveva in America a New York. I genitori erano morti da poco e nel 1939 decise di lasciare la puritana Inghilterra per la più tollerante Grande Mela e di unirsi colà ad un gruppo di intellettuali pacifisti, anch’essi fuoriusciti, in cerca di una vita con meno vincoli e lontana dalle minacce europee di guerra. Ufficialmente l’autore dichiara che l’intento della Sinfonia da Requiem è di ricordare gli amati genitori, ma in realtà ci pare descriva un suo particolare percorso interiore che dal dolore famigliare, con la fuga in un’altra realtà, approdi a una ritrovata tranquillità. Visione complessiva che si riallaccia, non alla liturgia cattolica, cui parrebbero alludere i titoli delle tre sezioni in cui è suddivisa l’opera, ma al clima vitalisticamente onnicomprensivo delle composizioni di Mahler. Autore, allora desueto in Europa ma, per tradizione personale ed interpretativa, di casa alla New York Philharmonic. L’organico orchestrale, sulle tracce di Mahler, è imponente e gode di una calibratissima orchestrazione. L’opera è suddivisa in tre parti, senza pause, per una durata complessiva di 20 minuti. La prima esecuzione, diretta dall’inglese John Barbirolli, alla testa della NY Philharmonic, si tenne a New York alla Carnegie Hall il 29 marzo 1941. Il Lacrimosa, all’avvio, come da tradizione, è caratterizzato dalle numerose sincopi di pianti e singhiozzi che si arricchiscono di melodia progressivamente per tutti gli otto minuti di durata. Nel Dies irae, secondo episodio, non si ha lo scatenamento, di tradizione, delle ire divine, ma la descrizione di un viaggio precipitoso. Si parte a spron battuto e si approda dove un sassofono suona. Finalmente si raggiungono la pace e la tranquillità di un Requiem Aeternam non così definitivo. Questa sinfonia è carica di così tanta ambiguità meravigliosa da potersi leggere sia come un omaggio funebre, come un racconto psicologico e personale e finalmente come trionfale festeggiamento per il giubileo del Giappone, come incautamente propose lo stesso autore. Un sicuro e avvincente capolavoro, una tappa fondamentale della musica del ‘900, senz’altro degno di esecuzioni più frequenti. Si è guadagnata comunque un buon successo, non così scontato per un’opera del recente passato e per un autore ugualmente non consueto negli impaginati dell’Auditorium di via Rossini. La serata purtroppo è stata in gran parte disertata dal pubblico, per il freddo e per il ghiaccio che rendeva mal praticabili strade e marciapiedi. Chi c’era ha manifestato larghi consensi e molto affetto a James Conlon. L’OSN RAI ha magnificamente disbrigato il suo compito nel dare al meglio vita a due opere, per varie ragioni, assai ardue da rendere con efficacia.
Doveroso citare l’ottavino di Fiorella Andriani, il fagotto di Francesco Giussani, il clarinetto di Luca Milani, l’oboe di Francesco Pomarico, il corno di Francesco Mattioli e i timpani di Andrea Bindi poiché le partiture in esecuzione li hanno messi in particolare evidenza. Ci scusiamo con chi è rimasto nelle file, ma spazio e consuetudine impongono, seppur odiati, limiti di citazione. Foto PiùLuce/OSN Rai