Napoli, Teatro Bellini: “Don Juan in Soho”

Napoli, Teatro Bellini, Stagione 2022/23
DON JUAN IN SOHO”
Spettacolo di Patrick Marber ispirato al Don Giovanni di Molière.Traduzione Marco Casazza
Pete ALFREDO ANGELICI
Elvira NOEMI APUZZO
Lottie GAIA BENASSI
Mattie/Dalia CLAUDIA D’AVANZO
Vagabondo GENNARO DI BIASE
La Statua CARLO DI MARO
Aiace SEBASTIANO GAVASSO
Padre MAURO MARINO
Stan ALFONSO POSTIGLIONE
Ruby ARIANNA SORRENTINO
Colm GIANLUCA VESCE
Regia Gabriele Russo
Scene Roberto Crea
Costumi Chiara Aversano
Disegno luci Salvatore Palladino
Progetto sonoro Alessio Foglia
Produzione Fondazione Teatro Di Napoli – Teatro Bellini
Napoli, 27 dicembre 2022
«Dov’è la vita? Dove Soho?…», domanda, piagnucolando, come preso da una strana o nuova febbre, Don Giovanni… o, meglio, Don Juan, alla statua parlante che gli ha predetto la morte – e che lo sta ponendo dinanzi ad essa. E Don Juan – “DJ”, per chi ha la sfortuna d’essergli amico –, spaventato e tremante, continua: «Non voglio credere in te», e la statua: «Ma… io sono… te». Ecco: DJ non crede più in sé stesso e – dopo la tragica perdita della sua identità – è costretto a mostrarci quell’irrazionale insicurezza, che va a comporre, poi, il fondo d’una personalità drammaticamente, o sinceramente, «ambigua». Arriva al Bellini questo Don Giovanni vagamente superomistico, e porta con sé un po’ dell’odierno Soho, quartiere londinese del West End, zona di ex bordelli e strip clubs: spazio fisiologicamente perfetto per un libertino. L’autore Patrick Marber, per la costruzione del testo (avvenuta nel 2006, e rifatta 10 anni dopo), trae spunto, ovviamente, da Molière, ed effettua una sfrenata trasposizione della commedia tragica molieriana a Soho, appunto. È una operazione che potremmo definire, almeno idealmente, pasoliniana: la trasposizione delle settecentesche Cent Vingt Journées de Sodome di Sade a Salò, durante la Repubblica fascista del 1943-1945, ne è un esempio. Ma, tra un po’, ci arriveremo.
Juan, «poeta della carne», personaggio drammaticamente borghese e, dunque, nichilistico, c’appare, inizialmente e formalmente, come un «poeta» vagamente, o fintamente, maledetto – atroce e seducente. E – ancora soltanto inizialmente – è dura resistere alla tentazione d’essergli amico o, perlomeno, «complice». Perché, l’attore Daniele Russo ce lo rende spaventosamente simpatico, «vignettistico» – se vogliamo – e ingenuamente, squisitamente scandaloso. Pare una figura «sodomitica», nel senso pasoliniano del termine. Pare, cioè, un Potente delle “120 Giornate”; una figura staccatasi da quell’affresco cinematografico, e decadentistico, che è “Salò-Sodoma”. E, proprio per dirla con Pasolini, DJ ci appare come un Dannunziano in pantofole o, meglio, in perizoma: sonnecchia, sopra un sofà, in una vestaglia giapponista, e vagheggia, infantilmente, sempre per dirla con PPP, una regressione narcisistica a un tipo d’esistenza titanica o, meglio, anti-eroica. Si pone fuori del tempo, al di là della Storia… e s’annoia, s’annoia profondamente, come un Dandy debosciato e discotecaro. È affetto da una raffinata pigrizia che, parafrasando E. Cioran, fa di lui un vero «liberato». E, come ogni vero liberato, è ferocemente moralista; un moralista «avvocato» della depravazione. Un’ambigua contraddizione vivente, innestata in un sistema di contraddizioni – tecniche, se vogliamo – che è, poi, quella cosa che viene definita «drammaturgia», e che, in questo caso (nella traduzione di Marco Casazza), potremmo definire come un ambizioso “pastiche” di linguaggi vari, una struttura «multilinguistica»: linguaggio cabarettistico, e linguaggio cinematografico, innestati in una cornice più ampia, che è quella teatrale. Ciò consente, poi, al regista Gabriele Russo d’effettuare una seria sdrammatizzazione degli elementi strutturali del Don Giovanni molieriano, presenti anche in Soho, sia pure sformati o umoristicamente esemplificati da Marber: scenette brevi, disperatamente nevrotiche o brillanti, una dietro l’altra… tutte intrise d’una apparente leggerezza. Un continuum, narrativo ed estetico, dunque, inframmezzato a tratti da momenti d’irrazionale sospensione dell’azione: un discorso «cabarettistico» interrotto da pause pompose e funeree, che il regista risolve facendo muovere le figure, nevroticamente o «a rallentatore», sopra una pedata roteante (ideata da Roberto Crea), divorata da luci tetre e severe (disegnate da Salvatore Palladino). Brevi momenti d’irreale o sognante sospensione, dunque, definiti attraverso brani d’odierna Disco music – curati da Alessio Foglia –, e ciò dà forma ad ironici «effetti di contrasto». Non c’è spazio, e tempo, per pensare: ma, per ridere, e di gusto. Non possiamo, dunque, non essere «amici» di Don Juan… accade spontaneamente, ed occorre prenderne atto; perché, prima di tutti, l’autore ed il regista, involontariamente, forse lo sono. Però, forse, lo era anche Molière: in questa cornice, d’irrealistica leggerezza, non possiamo avvertire la sofferenza delle vittime del Seduttore (e della moglie, in questo caso), perché veniamo allontanati dalla sofferenza attraverso la sua ipnotica simpatia: se Juan non fosse stato ammazzato, dai fratelli della moglie abbandonata, le prossime sue vittime saremmo stati noi.La sua Simpatia ha trionfato sulla sua Morte: ecco perché, poi, gli spettatori, abbastanza numerosi, son tornati a casa sorridenti – dimentichi del suo martirio. La Simpatia gli ha consentito di restare sé stesso fino in fondo, nonostante i pochi momenti d’incertezza o paura. Un vero anti-eroe, a cui l’attore Daniele Russo ha donato un linguaggio tutto artefatto, perfettamente «manierista» o umoristicamente accademico; un linguaggio «multistilistico» – assunto, poi, da tutti gli attori –, che va a comporre una sequenza di nozioni e dati sessuali, raccontati meccanicamente e con estrema espressività: l’ossessiva reiterazione d’immagini e dati «pornografici», o erotici, è comicamente funzionante – e questo sfrenato, ed automatico, «procedimento iterativo» serve a smascherare, infantilmente, un’insicurezza inconscia che, ovviamente, Juan non sa di avere. E serve, poi, alla costruzione di un’immagine del Seduttore non «virilista» o machista: i dati sessuali evocano, e riguardano, anche rapporti omosessuali. Non un «Don Giovanni», dunque – nel senso stretto della definizione —, ma, una «primadonna»: è così che Juan osserva sé stesso, dopotutto. Il linguaggio parlato, poi, procede speditamente accompagnato da un linguaggio gestuale tutto potentemente didascalico o «descrittivo»; e tutto ciò definisce, ed attraversa, coralmente, tutti gli attori – avvolti, peraltro, negli appropriati costumi di Chiara Aversano: Alfredo Angelici (Pete), Noemi Apuzzo (Elvira), Gaia Benassi (Lottie), Claudia D’Avanzo (Mattie/Dalia), Gennaro Di Biase (Vagabondo), Carlo Di Maro (La Statua), Sebastiano Gavasso (Aiace), Mauro Marino (Padre), Alfonso Postiglione (Stan), Arianna Sorrentino (Ruby), Gianluca Vesce (Colm). Foto Mario Spada