Milano, Teatro Franco Parenti, Stagione 2022/23
“AGNELLO DI DIO”
di Daniele Mencarelli
Marco FAUSTO CABRA
Suor Lucia VIOLA GRAZIOSI
Samuele ALESSANDRO BANDINI
Suor Cristiana OLA CAVAGNA
Regia, scene e costumi Piero Maccarinelli
Musiche Antonio Di Pofi
Luci Cesare Agoni
Produzione Centro Teatrale Bresciano
prossime date qui
Milano, 14 dicembre 2022
Chi scrive questo pezzo, è il caso di chiarirlo subito, lavora da quindici anni a stretto contatto con gli adolescenti, in contesti scolastici ed extrascolastici, e forse per questo le sue aspettative su “Agnello di Dio” di Daniele Mencarelli erano piuttosto alte. Perché, e passo alla prima persona singolare, per una volta, a me piace stare coi ragazzi, li sto ad ascoltare per ore e penso che lavorare con loro in alcuni periodi mi abbia salvato la vita. Questo preambolo serve a chiarire la posizione che inevitabilmente mi trovo a prendere di fronte ad “Agnello di Dio”, che, ahimè, ha tutte le tipiche caratteristiche dello spettacolo scritto da un adulto che si sforza di sentirsi ancora un ragazzino. Insomma, è la stessa differenza che passa tra “giovane uomo” e “uomo giovanile”: il primo è un ventenne che si comporta da ventenne, il secondo un cinquantenne che si comporta da trentenne – a voi le conclusioni. Ma andiamo con ordine, perché l’autore in questione è un buon romanziere di successo, e il testo, per lo meno apparentemente, ha le carte in regola per essere fruito felicemente: Samuele ha “scandalizzato” la prof di italiano con un tema dal piglio ribelle e nichilista, e per questo è costretto a un confronto con suo padre, Marco, e la preside della sua scuola cattolica (Suor Lucia) nell’ufficio di quest’ultima. Il punto di partenza è buono; lo sviluppo, tuttavia, è una congerie di luoghi comuni sull’educazione, lo scontro generazionale, la falsità degli adulti, l’immaturità degli adolescenti, intervallati dai siparietti della “comica” e anziana Suor Cristiana (che vorrebbe essere la “buona”, mentre suor Lucia è la “cattiva”).Non esiste tragedia, ma nemmeno dramma, e a malapena dráma, nel senso greco di azione; i personaggi sono quasi caricaturali (Marco: il cinico businessman senza cuore che però ama il figlio; Samuele: l’adolescente tormentato ma tutto sommato superficiale; Suor Lucia: l’inflessibile megera dall’animo ferito; Suor Cristiana: la bonaria incarnazione dell’innegoziabilità dei valori), e pure gli attori ci offrono interpretazioni abbozzate, spesso nascoste dietro lo stereotipo (pensiamo a Fausto Cabra nel ruolo di Marco, recitato tutto con lo stesso tono di voce autoritario e preoccupato, o a Viola Graziosi (Suor Lucia), spesso in preda a una gestualità deittico-indicale da hostess di bordo) o dietro la gigioneria dell’età (la Suor Cristiana di Ola Cavagna). Più credibile Alessandro Bandini nel ruolo di Samuele, per quanto penalizzato dalla superficiale regia di Piero Maccarinelli che lo vuole costantemente in piedi-seduto-seduto a terra senza quasi nessun’altra azione rilevante. Peccato per questa resa, perché le scene, sempre di Maccarinelli, i brevi momenti musicali curati da Antonio Di Pofi e le luci di Cesare Agoni sono riuscitissime, anzi: all’inizio dello spettacolo rimaniamo colpiti dalla minuziosa ricostruzione, gelida e al contempo inquietante, che la fusione di questi tre elementi sa mostrarci. Infine, restiamo con un dubbio di tipo quasi teologico: perché il titolo “Agnello di Dio”? L’Agnello è simbolo cristologico poiché vittima sacrificale par excellence, offerta per ottenere un favore più grande. Gesù è l’Agnello di Dio perché Dio decide di incarnarsi e sacrificarsi in Lui per la remissione dei peccati del genere umano; ma qui non esiste vittima se non la povera Suor Lucia, la quale, è chiaro, fu vittima del ludibrio del maschio e di nessun sacrificio; l’accostamento del titolo all’immagine di locandina (un giovane accasciato a torso nudo, di gusto peraltro chiaramente queerbaiting) fa pensare che l’Agnello sia Samuele, o la sua voglia di ribellione. Ma, se davvero dobbiamo tenere per lui, questo sacrificio non avviene per una conquista più grande, quanto per la perdita dell’irruente frenesia adolescente. E rieccoci, dunque, a capo: perché questa perdita, in un’ottica “adulta” comporta la consapevolezza del proprio status sociale, la voglia di crescere e arricchirsi, l’accettazione della “normalità”. Queste sono, insomma, le cose per cui vale la pena sacrificarsi. Bene, ma non benissimo. Foto Umberto Favretto