Teatro alla Scala, stagione d’opera e balletto 2022/2023
Anteprima riservata ai giovani
“BORIS GODUNOV”
Dramma musicale popolare in quattro parti e sette quadri (versione del 1869) dalla tragedia omonima di Aleksandr Puškin e dalla Storia dello Stato russo di Nikolaj Karamzin.
Musica e libretto di Modest Petrovič Musorgskij
Boris Godunov ILDAR ABDRAZAKOV
Fëdor LILLY JØRSTAD
Ksenija ANNA DENISOVA
La nutrice di Ksenija AGNIESZKA REHLIS
Principe Vasilij Ivanovič Šujskij NORBERT ERNST
Andrej Ščelkalov ALEXEY MARKOV
Pimen AIN ANGER
Grigorij Otrep’ev DMITRY GOLOVNIN
Varlaam STANISLAV TROFIMOV
Misail ALEXANDER KRAVETS
L’ostessa MARIA BARAKOVA
L’innocente YAROSLAV ABAIMOV
Guardia OLEG BUDARATSKIY
Mitjucha ROMAN ASTAKHOV
Boiaro di corte VASSILY SOLODKYY
Orchestra e Coro del Teatro alla Scala
Voci Bianche dell’Accademia Teatro alla Scala diretto da Bruno Casoni
Direttore Riccardo Chailly
Maestro del coro Alberto Malazzi
Regia Kasper Holten
Scene Es Devlin
Costumi Ida Marie Ellekilde
Luci Jonas Bøgh
Video Luke Halls
Nuova produzione Teatro alla Scala. Produzione ideata da Kasper Holten e Es Devlin
Milano, 4 dicembre 2022
Già da parecchi decenni, è noto, il teatro musicale s’è messo ad inseguire quello di parola sulla strada della regia. E dunque del Boris oggi affascina non più lo sfarzo d’un oriente fantastico nella strumentazione di Rimskij-Korsakov, né il suggestivo quadro storico della più convenzionale drammaturgia della seconda versione d’Autore, ma lo scarno ed inquietante mondo interiore del cosiddetto Ur-Boris.
Questa prima arditissima versione mai la si direbbe del 1869: pare avanguardia novecentesca. E come tale Chailly la guarda, con esito memorabile, tra le sue Prime migliori: una direzione implacabile e nervosa, che illumina il dramma e scandaglia la parola, che lascia sfolgorare abbaglianti le monumentali masse sonore dell’incoronazione, finché un vero scampanio non scava un abisso d’inquietudine nella debole mente del protagonista. Perché anche l’incoronazione non è effettaccio spettacolar-ornamentale ma occasione drammatica di scavo nel personaggio, che già alla sua prima apparizione è accompagnato dalla visione dello zarevič grondante di (troppo) sangue.
Ildar Abdrazakov è per Chailly la conditio sine qua non. Giustamente. Talvolta si sente dire che per certi ruoli le voci belle non solo non servano ma che persino siano d’impaccio: della falsità di tale tesi Abdrazakov è la prova cantante. È nota la natura privilegiata del suo mezzo vocale dal timbro così gradevole, morbido e pieno, e così ricco di armonici, sostenuto da un giro di suono prodigioso. Ma il professionista sa servirsene o non, ampliando la sua palette di colori con sfumature estreme, prossime al sospiro e al grido, fraseggiando con grande varietà d’accenti, e con piena disinvoltura, segno inequivocabile dell’intesa con il Maestro. Particolarmente in questa prima versione il protagonista ha un peso schiacciante, che solo una grande personalità scenica può sostenere: e Abdrazakov la è. Capace di balzare da una recitazione più cinematografica, minimalista ad una più espressionista, aggressiva ed esuberante, per esempio nelle minacce a Šujskij, con tanto di lampeggianti occhi da Mangiafuoco, o nel finale. Il secondo protagonista è il popolo russo, colpevole vittima delle proprie sofferenze. Il coro curato dal Maestro Alberto Malazzi è come sempre in ottima forma: spettacolari, per esempio, i contrasti di agogica. Magnifiche le Voci Bianche dell’Accademia della Scala preparate dal mitico Bruno Casoni.
La regia di Kasper Holten attribuisce grande peso a Pimen, che con le sue cronache ha tappezzato l’intera scena (fissa): un enorme rotolo svolto su cui scorre il racconto della storia (proiettato). Il taglio registico è amletico e chiaro: a partire dalla coincidenza, tutta da riempire di significato perché di per sé non ne ha molto, che Godunov e Shakespeare storicamente sono contemporanei. Più significativo invece è che Puškin abbia scritto il Godunov (il libretto non esiste: è il testo di Puškin, genialmente adattato da Musorgskij) sotto l’effetto di una ubriacatura shakespeariana. E quindi l’innocente è il fool, e l’ambizioso Zar usurpatore (e futuro usurpato) è un Macbeth senza Lady ma ben fornito di apparizioni. È una lettura che può reggere, ma non attenuare la sensazione amara d’essersi appropriati, noi eurocentrici occidentali, del prodotto più russo del teatro russo. La sua intima anima slava, e particolarmente di questa prima versione, è sempre stata di intralcio alla comprensione ed al successo dell’opera. Nata in un milieu teatrale russo di gusto occidentale, e da questo rigettata; amata invece sotto la rassicurante patina accademico-technicolor di Rimskij-Korsakov, come si diceva all’inizio (e come tutti sanno: in corrispondenza del 7 dicembre il numero esperti d’opera conosce una crescita spaventosa). E poi i personaggi rivelano lati inediti: l’eroico Pimen rinuncia alla sua vocazione da parresiasta per raccontare a Boris la storia del miracolo dello zarevič, inventata di sana pianta dal Principe Šujskij per far impazzire il sovrano. Principe che spiana la strada al falso Dimitri che poi, irriconoscente, invece di stringergli la mano gli porge la propria perché la baci, contrariandolo. Se ne vendicherà? Intanto Boris muore ma non dilaniato dal senso di colpa: pugnalato alle spalle da un sicario.
Che siano le idee buone o no, l’allestimento è abbondantemente al di sotto delle capacità delle maestranze scaligere. E per una prima delle prime che, si sa, è anche e forse soprattutto una questione d’immagine, questo è piuttosto invalidante. La ricerca di pulizia deve condurre a pochi elementi veramente significativi, eclatanti, ed accompagnarsi ad una qualità altissima di esecuzione. Ma le (volute) pacchianerie dorate del potere non soddisfano la brama di spettacolo lasciata dai fondali stampati. Anche perché alla Scala i raffinati quanto derisi gourmets dello sfarzo sono abituati a valutare la qualità delle materie prime (della ricerca iconografica), e non ad accontentarsi dell’abbondanza di spezie (oro).Con Abdrazakov, un cast omogeneo e decisamente all’altezza. Si distingue per qualità del timbro e squillo Alexey Markov, Ščelkalov, e per l’appropriatissimo “viscidume” scenico Norbert Ernst, Šujskij. Dmitry Golovnin è -paradosso- il falso Dimitri, personaggio assai più a fuoco vocalmente di quanto non lo sia nella regia e nell’opera. Il monaco cronachista di strada ha invece la solida voce di Ain Anger. Peccato non aver scelto un ragazzo per il ruolo di Fëdor, sarebbe stato drammaticamente assai più efficace e forse avrebbe avuto una capigliatura più convincente. Con i suoi lamenti l’innocente rischia la scivolata nel grottesco, e invece molto misurata e di buon gusto è la prova di Yaroslav Abaimov, e lo stesso si può dire del Varlaam di Stanislav Trofimov. Direzione memorabile e, per favore, emancipata dall’ombra di Claudio e cast con l’astro di Abdrazakov nient’affatto velato dal cast di alto livello, ma per un’inaugurazione scaligera lo spettacolo, pur di alto livello internazionale, è veramente parco. Foto Brescia & Amisano