Dal 11 novembre 2022 al 19 marzo 2023
Orari: lunedì: 14.30 – 19.30 / dal martedì alla domenica: 9.30 – 19.30 / giovedì e sabato chiusura alle 22.30
Biglietti: Intero 12 € / Ridotto 10€
“Come l’acqua, il gas o la corrente elettrica, entrano grazie a uno sforzo quasi nullo, provenendo da lontano, nelle nostre abitazioni per rispondere ai nostri bisogni, così saremo approvvigionati di immagini e di sequenze di suoni, che si manifestano a un piccolo gesto, quasi un segno, e poi subito ci lasciano”. Così Paul Valéry. Oggi con una semplice ricerca online possiamo raggiungere qualsiasi tipo di immagine che nell’arco della vita avremo forse avuto l’occasione di trovarci davanti, insieme a molte altre sconosciute. Ma la capacità di ciascuna di esse di sconvolgere può affievolirsi? Se pensiamo all’impatto che una mera riproduzione di un famoso dipinto di Velasquez ebbe su Francis Bacon, ne dubitiamo. Ad ogni modo, le fotografie ora in mostra presso il Mudec sono effettivamente una delle possibili stampe ricavabili dai negativi. Ci ha riferito Valéry: “immagini […] che si manifestano a un piccolo gesto, quasi un segno, e poi subito ci lasciano”. Ci lasciano, se non siamo noi a riprenderle in mano, nella nostra mente. Non entriamo nel vivo del discorso filosofico, ma possiamo, a nostro giudizio, dire che una qualche aura le foto in mostra la posseggono. Anche se le stampe non fossero originali. Perché una mostra è l’organizzazione di un pensiero, di un messaggio che qualcuno, non necessariamente un artista, vuole comunicare. In questo modo, si ha un fondamentale hic et nunc irripetibile: le fotografie ri-assumono i contorni di un momento unico di percezione, indipendente dall’opera dell’artista. È anche così che possono accadere situazioni come quelle in cui ci siamo imbattuti durante la nostra visita, un giovedì pomeriggio, nelle sale del Mudec. Accanto a noi avevamo un’anziana signora dai tratti asiatici che, ad ogni fotografia, non risparmiava un commento ad alta voce esposto alla sua amica, ora sulla notorietà di un’immagine, ora sul sincero dispiacere per la sorte delle persone ritratte, per i disastri imprigionati nella intrinseca immaterialità delle immagini. Le fotografie proposte, infatti, si concentrano sull’attività di report di guerra, che costò la vita a Robert Capa, piuttosto che sui ritratti, come potevano essere quelli a Ingrid Bergman, che seguì, per amore, anche sul set di Notorious. A tal proposito, attendiamo presto una mostra che possa raccontare Capa oltre la guerra. Difatti, nonostante Capa sperasse di restare disoccupato come fotografo di guerra, il suo nome è spesso legato proprio a questa attività, facendo anche parte di quel gruppo che contribuì a fondare l’agenzia Magnum insieme ad un altro fotografo, Henri Cartier-Bresson, per il quale il Mudec realizzò di recente una mostra, per altro, nelle stesse sale di questa (qui la nostra recensione). Come fu per questa mostra, anche in questo caso manca un’audioguida, che forse avrebbe potuto essere sopperita da materiale audiovisivo. Oltre a ciò, si sente anche la mancanza di un catalogo che non vada poco oltre alla raccolta delle foto esposte. Saggi e indagini sempre nuove possono aggiungere punti di vista e aiutare a rivivere ciò che si espone sotto una diversa luce, e aggiungere valore a quel messaggio di cui abbiamo sottolineato l’importanza. Ad esempio, ci chiediamo: cosa avrebbe detto un nuovo Walter Benjamin su una questione così dibattuta come quella dell’autografia della foto al miliziano lealista ucciso durante la guerra civile spagnola del ’36? Secondo alcuni è una messa in scena; secondo altri potrebbe addirittura essere stata scattata dalla compagna di allora, Gerda Taro, e poi, visto che Capa dichiarò di aver spedito i negativi tutti insieme senza guardarli, essere stati confusi; secondo altri ancora – chi meglio lo conosceva – Capa non avrebbe mai potuto mentire in fotografia; e chi più ne ha più ne metta. Fatto sta che, come Il 3 maggio 1808 di Goya, o I disastri della guerra dello stesso, questa fotografia passò subito alla storia, come simbolo. Capa divenne così un famoso fotografo grazie ad una foto che lui stesso dichiara essere stata scattata dalla macchina, messa sopra la sua testa, mentre era in trincea. Le polemiche tardarono ad arrivare, ma, dopo anni dalla sua pubblicazione, vari studiosi si sono votati alla produzione di testi destinati ad uno scontro programmatico che ha, un po’ ottusamente, nutrito la questione anziché scioglierla. D’altronde le polemiche sono la normalità, e quindi pure noiose e scontate: questo tipo di studi sarebbe meglio evitarli. Quel che noi pensiamo a riguardo, viceversa, è che, a prescindere da ogni dubbio, questa fotografia continua a vivere come immagine. Detto à la Benjamin, forse è più importante il momento di esecuzione che l’ispirazione. E se, per di più, fosse solo frutto di una messa in scena? Sarebbe una truffa? Forse. Ma è una truffa Il 3 maggio 1808 di Goya? Se una fotografia è definibile come opera d’arte, anche una messa in scena, se sincera, dovrebbe poterlo essere, lo abbiamo già visto nella recente mostra su Scianna (qui la nostra recensione). Ma, in fin dei conti, la conclusione alla questione crediamo risieda nella visione pirandelliana della verità. Si dica pure: la fotografia è una messa in scena; non è una messa in scena; è di Capa; non è di Robert Capa; eccetera. La risposta è sempre una: così è, se vi pare, quel che resta è l’immagine. E non è un modo semplicistico di aggirare l’ostacolo, ma è il salto stesso. Altrimenti opere d’arte anonime di epoche passate non avrebbero mai potuto avere l’importanza che hanno effettivamente avuto. D’altronde interrogare la verità significa interrogare la foto stessa, ed è quindi come se stessimo chiamando in scena la moglie del Signor Ponza: “Io sono colei che mi si crede”. Perciò, come se fossimo a teatro, davanti ad una commedia pirandelliana, sediamoci, virtualmente, nelle sale del Mudec, e riviviamo queste immagini come se fossimo a nostra volta degli sceneggiatori di un’opera, una qualsiasi, ma che è nostra, e che ci porteremo sempre dietro.