Auditorium RAI “Arturo Toscanini”, di Torino, Stagione Sinfonica 2022-23.
Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI
Direttore Aziz Shokhakimov
Dmitrij Šostakovič (1906-1975): Sinfonia n.7 in Do maggiore, op.60 “Leningrado” (1941)
Torino, 4 novembre 2022
La “Leningrado” sinfonia n.7 di Dmitrij Šostakovič oltre ad essere notissima è pure la più eseguita tra le 15 del suo autore. La prima di queste si ebbe il 5 marzo del 1942, nel teatro di Kujbyšev sugli Urali, dove, per salvarli dall’armata tedesca, Stalin aveva confinato molti artisti dell’URSS. Da lì la sinfonia partì subito, approdò, dopo un viaggio avventuroso del microfilm, negli USA nel luglio dello stesso ’42 e qui fu eseguita, sotto la direzione di Toscanini, dall’orchestra della NBC. Evidentemente le circostanze politiche, l’alleanza USA-Urss e la critica situazione bellica ne promossero la rapidissima ed avventurosa diffusione. Le truppe hitleriane invadono la Russia nel luglio del ‘41, l’assedio di Leningrado inizia a settembre dello stesso ’41, per terminare poi a gennaio del ’44; Šostakovič a dicembre ’41 ha ormai completato la ponderosissima partitura. C’è già stato quindi l’inizio dell’assedio ma l’immane sacrificio di Leningrado e dei suoi abitanti è ancora di là da venire. Indubbiamente il timore per quanto sarebbe potuto accadere e per gli esiti finali della guerra stanno all’interno della sinfonia, ma ci sono anche, vivissimi ed ancora attuali, l’angoscia e il terrore per quanto è già successo ad opera del georgiano che, imperando da Mosca, non ama assolutamente la città sulla Neva e la sua intellighenzia, sempre a lui ostile. Il primo e l’ultimo tempo della sinfonia sono frutto del momento bellico e sono, per molti aspetti, retoricamente di maniera, seppur di una grande maniera, edificata su un artigianato compositivo ai vertici del mestiere. Šostakovič, allievo di Glazunov e, per li rami, di Rimskij, genio dell’orchestrazione, dispiega qui tutta la potenza di un’orchestra spinta all’ennesima potenza fonica. I due tempi centrali, viceversa, suonano estremamente personali ed ispirati da grande sensibilità, reali testimoni delle traversie che l’autore e il popolo della città baltica hanno subito negli ultimi decenni. Le angosce, le speranze, le gioie e i dolori sfilano così convincenti nella loro espressione, da consolidare il giudizio positivo che, fin dalla creazione, tutti i pubblici hanno attribuito all’opera.
Il primo tempo, Allegretto, eccessivamente assordante nell’interpretazione di Shokhakimov, raffigura certamente la progressiva invasione della patria da parte del nemico, costruito com’è su un ostinato di tamburino che ritma e sorregge un tema di marcia, man mano rinforzato dall’inserimento di strumenti fino al coinvolgimento dell’orchestra al completo. Nucleo del tempo sono le 13 variazioni su un tema fisso, con rinforzo progressivo d’organico, che rimandano all’ossessivo e implacabile procedere del Bolero di Ravel. Ancor più di maniera è il tempo finale, Allegro non troppo, ottimisticamente danzante, speranzoso e trionfante. La musica doveva, in URSS, a quei tempi, piacere al popolo ma soprattutto a Stalin e per questo era d’obbligo che fosse pervasa di ottimismo e di certezza di vittoria. Per chi non avesse ottemperato a questi vincoli, era inevitabile l’espulsione dall’unione dei compositori sovietici con annessa perdita dell’unico sostegno economico che veniva erogato dallo stato-padrone. Non era neppure da escludersi una tragico trasferta in qualche campo di rieducazione siberiano, da cui raramente se ne usciva vivi. Con queste premesse, un certo compiacente opportunismo trionfalistico dei compositori era inevitabile e, se di buona riuscita, va, ancora oggi, non solo compreso ma pure lodato. Nella circostanza, sfilate trionfali, feste popolari e balli gioiosi sono confezionati con le straordinarie abilità del musicista colto e di gran talento.
Il direttore uzbeko, Aziz Shokhakimov, saliva, esattamente un anno fa, il 4 novembre 2021, sul podio dell’Auditorium di Piazza Rossaro per dirigervi Rachmaninov e Stravinskij, allora la sua prestazione esaltò il pubblico che l’accolse con entusiasmo. La direzione artistica dei concerti RAI l’ha quindi, con felice sollecitudine, richiamato per questa nuova stagione. Gli esiti della serata sono stati alterni. La risolutezza e l’entusiasmo giovanili hanno eccessivamente caricato di suono i tempi estremi appiattendoli e privandoli di una dimensione prospettica più ariosa e meno uniformata su un incombente fortissimo. I tempi centrali hanno fortunatamente avuto un miglior dosaggio di suono. A noi pare che questo positivo cambio di marcia sia essenzialmente da attribuirsi alla suprema abilità e sensibilità dell’Orchestra Sinfonica Nazionale RAI e delle sue prime parti. Queste ultime, ad iniziare dallo splendido violino della spalla Alessandro Milani, si sono imposte grazie ad una intelligente lettura intima e meditativa che ha illuminato tutti i contrastanti stati d’animo della partitura.Le approvazioni, da parte del non oceanico pubblico, sono comunque state calorose e prolungate e si sono rinforzate man mano i solisti e le sezioni dell’orchestra, si sono alzate per ringraziare. L’elenco delle prime parti gratificate con scrosci di applausi sarebbe troppo lungo e a rischio di imperdonabili dimenticanze, ma, oltre al violino di spalla dell’orchestra, non vogliamo tacere degli omaggi del pubblico al tamburino di Emiliano Rossi, ossessivo ed efficacissimo motore che conduce, nell’Allegretto iniziale, la scansione inesorabile delle variazioni.