Dal 9 novembre 2022 al 12 marzo 2023
Orari: dal martedì alla domenica 10.00 – 19.30 / giovedì chiusura alle 22.30
Biglietti: Intero 15 € / Ridotto 13€
Nel 2018, Portrait of an artist (Pool with two figures) di David Hockney, dipinto nel 1972, fu venduto all’asta per 90,3 milioni di dollari. Un record assoluto, che sorpassa quello raggiunto sei anni prima dal quadro Orange, red, yellow di Rothko, aggiudicato per 86,9 milioni. Eppure, quanto lontani sono queste opere l’una dall’altra! Il Novecento è stato profondamente segnato, se volessimo ragionare per massimi sistemi, da una caccia all’emozione e al figurativo: l’arte doveva essere pura e concettuale. Eppure, questa cornice teoretica è sostanzialmente mortificante se si vuole discutere sull’arte del Novecento. La quotazione record raggiunta da David Hockney ne è la prova. È una rivincita del figurativo sull’astratto e il concettuale? A prescindere dalle preferenze personali – e tra i due, per chi vi scrive, ricadono tutte su David Hockney – non possiamo non concludere che ogni periodo storico sia un sistema complesso, e come tale presenti così tante sfaccettature che ogni studio sistematico funziona solo ceteris paribus. Così è per il Novecento, così pure per l’epoca “rinascimentale”. Ogni cosa che è passato è influenzata dalla visione di chi, prima di noi, ne ha dato. Il Rinascimento è nato forse nell’Ottocento, dal pensiero di Burckhardt, e di lì subì vari aggiustamenti. Fatto sta che, una volta partorita questa definizione, la si deve prendere per quello che è. Difatti, la classica visione rinascimentale toscano-centrica, prendendo il Vasari come punto di riferimento, ha già avuto i suoi “detrattori” in tempi passati. Infatti, in una ideale risposta, nelle varie città italiane sorsero varie raccolte di vite di pittori, che cercavano di sostituire il divino Michelangelo, posto al vertice dal Vasari, con un pittore locale: dalla Felsina Pittrice del Malvasia, apoteosi della pittura bolognese, alle Maraviglie del Ridolfi a Venezia, o, addirittura, al – forse un po’ scalcinato – tentativo della Nobiltà di Milano del Morigia, che prova a definire la Milano Borromaica come una “Roma secunda”. Ad ogni modo, e arriviamo al punto, quando si è definito con una certa sicurezza il Rinascimento si è poi arrivati a parlare – non c’era scampo! – di “periferie”, “provincie”, fino ad arrivare ad una definizione di un “antirinascimento”, o anche di un “altro Rinascimento veneto”, o di un “Rinascimento fiammingo”, di “Rinascimento nordico”, eccetera. Ecco spiegato perché la mostra attualmente in corso a Palazzo Reale porta il titolo di Bosch e un altro Rinascimento. Ci domandiamo però una cosa: se, come oramai sembra chiaro, ragionare per correnti funziona solo fino ad un certo punto, perché focalizzare la mostra su un’alterità ad un concetto che già presenta confini così fragili, e comunque di costruzione postuma?
Di Bosch sappiamo poco: visse e operò quasi sempre a Boscoducale, nelle Fiandre; un nucleo di sue opere era presente in alcune collezioni veneziane e di Filippo II; la sua iconografia ebbe una certa eco nelle incisioni di un suo successore, Peter Bruegel il Vecchio; non sono molte le opere rimaste, ancor meno quelle firmate, e pure sulla firma v’è qualche dubbio; e poco altro ancora. Tutto il fumo che avvolge i pochi elementi certi ha fatto sorgere varie questioni tra gli studiosi, ma queste non rappresentano il voluto punto focale degli studi legati a questa mostra. Centrale, invece, è il seguito che Bosch ebbe nel Sud dell’Europa, per i committenti che il pittore ha avuto e per la fortuna iconografica di alcune sue composizioni. La mostra si presenta senza dubbio interessante. Sono presenti opere importanti della magra opera rimasta di Bosch, tra cui il Trittico delle Tentazioni di Sant’Antonio, che ha lasciato il Portogallo pochissime volte ed è ora in Italia per la prima volta, il Trittico del Giudizio Finale di Bruges e il Trittico degli Eremiti alle Gallerie dell’Accademia di Venezia. Poi, insieme alle autografe, vengono esposte una serie di opere che servono a mostrare che, oltre al Rinascimento noto, ne esiste un altro, o meglio altri. Quello, o quelli, che non rimandano ad una classicità, la cui imitazione è fondante per il Rinascimento. Ma quale classicità? È qui che si vedono le crepe di una definizione troppo assolutistica. Anche nel catalogo della mostra si ha il dubbio che il classicismo venga inteso secondo una visione “non cinquecentesca” (sempre che sia possibile darne una definizione): ad esempio, quando si specifica che Durer parodiasse i modelli canonici del classicismo, si pongono il Laocoonte e l’Apollo del Belvedere come opere simbolo, ma queste furono l’emblema del classicismo del Settecento, non certo i massimi punti di riferimento del Cinquecento. Infatti, sempre seguendo le imitazioni dell’antico, nacquero le grottesche, che forse male si intersecano con questa visione del “classicismo equilibrato”. Se anche uomini del Cinquecento non le accolsero con entusiasmo, questo dibattito si era già presentato nel monto antico stesso, con la condanna che ne fa Vitruvio. E quindi come giustificarle? Ecco che torna in causa Bosch. Insomma, questi pochi accenni confusi che abbiamo posto nel nostro discorso servono a mettere in luce che ragionare in questi termini presenti delle difficoltà. Bene è riportare nel giusto spazio e mostrare le influenze evidenti, ma proporre in maniera troppo vaga parallelismi, ad esempio, tra Bosch e le grottesche, o a un pittore come Arcimboldo, riducendo il discorso ad un po’ abusato aggettivo di “boschiano” non ci pare aggiunga molto se non un po’ di confusione. L’obiettivo, senz’altro corretto, era certamente quello di porre sotto la giusta luce l’esistenza di una realtà più complessa di quella leggibile in poche pagine di un manuale di storia dell’arte, ed è raggiunto; ma se il focus voleva essere quello di Bosch come uno dei tanti “altri” dell’epoca del Rinascimento, sconfinare su discorsi legati alle grottesche, o ad un più generico gusto per la deformazione e il mostruoso crediamo che avrebbe avuto bisogno di una focalizzazione differente, e un discorso che non riducesse tutto ad un Bosch come iniziatore deus ex machina di ogni mostro e bizzarria.
A parte ciò, sicuramente questa mostra ha il merito di portare per la prima volta a Milano Hieronymus Bosch e di porre argomenti corretti sulla fortuna iconografica di alcune sue composizioni, e sull’esistenza di un gusto dell’epoca più complesso. Se Filippo II fu committente di un manierista come Pellegrino Tibaldi, ma fu anche appassionato collezionista sia delle opere di Tiziano che di quelle di Bosch, tutto ciò pone la necessità di ulteriori studi per indagare meglio i gusti di quest’epoca. Speriamo se ne aggiungano molti altri.