Bologna, Teatro Comunale, stagione 2022
“LOHENGRIN”
Opera romantica in tre atti
Poema e Musica di Richard Wagner
Enrico l’Uccellatore ALBERT DOHMEN
Lohengrin VINCENT WOLFSTEINER
Elsa di Brabante MARTINA WELSCHENBACH
Telramund LUCIO GALLO
Ortrud RICARDA MERBETH
Araldo LUKAS ZEMAN
Quattro Cavalieri di Brabante MANUEL PIRATTELLI, PIETRO PICONE, SIMON SCHNORR, VICTOR SHEVCHENKO
Quattro paggi FRANCESCA MICARELLI, MARIA CRISTINA BELLANTUONO, ELEONORA FILIPPONI, ALENA SAUTIER
Nel ruolo di Richard Wagner ANDREA ARGENTIERI
Nel ruolo di Gottfried FEDERICO SIMONE CETERA
Orchestra e Coro del Teatro Comunale di Bologna, Coro del Teatro Accademico Nazionale dell’Opera e Balletto Ucraino “Taras Shevchenko”
Direttore Asher Fisch
Maestro del coro Gea Garatti Ansini
Maestro del coro Bogdan Plish
Regia, scene, luci, video Luigi De Angelis (Fanny & Alexander)
Drammaturgia e costumi Chiara Lagani
Nuova produzione del Teatro Comunale di Bologna
Bologna, 13 novembre 2022
Lohengrin, a Bologna, non può che emanare il tipico aroma dell’evento. Da quella mitica prima volta del 1871, Bologna è la città wagneriana, avamposto emiliano della MittelEuropa. Un’identità rivendicata e da rivendicare tuttavia: Tristano aveva inaugurato la sfortunata stagione 2020, l’Olandese volante inaugurerà la prossima. Ma non di solo Wagner vivrà l’uomo, e così nel 2019 Salome e quest’anno Ariadne, entrambe dirette magnificamente da Valčuha, hanno formato un piccolo dittico Straussiano, che doveva preludere ad un favoleggiato Rosenkavalier, che come è nella sua indole ci lascia in palpitante attesa: il tempo, bizzarra cosa.
Questo Lohengrin è anche una “fatal pietra” che si chiuse sull’amatissima sala Bibiena, amata sia per l’altissimo pregio architettonico sia per l’acustica strabiliante (e delicata). E poi il titolo è un evento di per sé. I complessi del Comunale si sono confermati ai loro altissimi livelli: fibre di nervi e muscoli per una terribile e lucente sonorità wagneriana, con preludio al terzo atto da antologia, e non una sbavatura d’intonazione negli ottoni (il che, Knappertbush lo sa, non è poi così scontato). Asher Fisch ha ritrovato l’equilibrio sonoro che nello scorso Otello era stranamente scivolato a sfavore dei cantanti e ora tutto funziona, benché senza troppi incanti, sfumature, trasparenze. Che un po’ si rimpiangono perché il mitico piace sempre, ma che effettivamente non sarebbero troppo coerenti alla messa in scena. La regia di Luigi de Angelis, che cura anche scene, luci e video, ambienta la vicenda in un fosco tribunale marziale, ma con incursioni meno prosaiche di un Wagner in piena febbre creativa, con piccolo Ludwig al seguito e cigno al guinzaglio. I fondali animati, brumosi ma che lentamente si rivelano, hanno un’anima intimamente padana, e il suono dell’orchestra felsinea resta un suono italiano, brillante: forse è una strada da percorrere, magari, provocazione, eresia, rispolverando vecchie o promuovendo nuove versioni ritmiche italiane. D’altronde quel mitico Lohengrin del 1871 piacque tanto anche perché, almeno in qualche misura, italiano. Sempre ottimo, inutile dirlo, il coro di Gea Garatti Ansini, rimpolpato per l’occasione da quello del Teatro Accademico Nazionale di Opera e Balletto “Taras Shevchenko” di Kiev. In tempi disincantati e nient’affatto romantici è la coppia dei cattivi ad accattivare il pubblico: ma meritatamente. Una recitazione credibile (leggi: cinematografica, perché il pubblico oggi, gira e volta, è sempre filonetflix e antiteatrale, per cui chi non recita naturalistico non sa recitare) nei larghi tempi wagneriani è un curioso ossimoro da cui si può uscire vivi solo con perizia acrobatica, cosa che a Lucio Gallo riesce a meraviglia, e non da meno è la consorte Ricarda Merbeth. A entrambi si possono perdonare certi suoni perché imputabili alla necessità espressiva della malvagità ferina. Non altrettanto ai protagonisti, che smontato l’allestimento e chiuso il Bibiena, possono essere collocati di tutto diritto sull’albero di Natale, essendo dotati di abiti catarifrangenti orlati di lucine festive. D’altronde questi soggetti mitici wagneriani sono corde tese sotto le quali rumoreggia ingordo il mare del ridicolo. Che con le sue onde ha schizzato più il sovrannaturale protagonista, Vincent Wolfsteiner: niente physique du rôle (ma chi ha il fisico da Cavaliere del Sacro Graal scagli la prima pietra), voce dal timbro non sgradevole né ammaliante ma emissione dura, spinta, faticosa. E meno la sua malfidata umana consorte, Martina Welschenbach, cui è sfuggito un po’ di vibrato nella prima aria del second’atto, piccolo vizio da cui si è poi redenta. La sua è la voce che corre e scorre più di tutte, limpida e serena, insomma di quelle chiare, fresche e dolci voci che per intendersi si dicono di gusto italiano.Dignitoso e omogeneo il resto del cast, a partire da Re Heinrich, Albert Dohmen, combattivo in scena ma più arrendevole con l’orchestra.E poi di corsa in stazione per non perdere l’ultimo cigno verso casa. Si replica fino al 20 novembre. Foto Andrea Ranzi