Madrid, Teatro Real, Temporada 2022-2023
“AIDA”
Opera in quattro atti su libretto di Antonio Ghislanzoni, basato su di un argomento di Auguste Mariette e Camille du Locle.
Musica Giuseppe Verdi
Il Re DEYAN VATCHKOV
Amneris JAMIE BARTON
Aida KRASSIMIRA STOYANOVA
Radamès PIOTR BECZALA
Ramfis ALEXANDER VINOGRADOV
Amonasro CARLOS ÁLVAREZ
Sacerdotessa MARTA BAUZA
Messaggero FABIÁN LARA
Coro y Orquesta Titulares del Teatro Real
Direttore Nicola Luisotti
Maestro del Coro Andrés Máspero
Regia, scene e costumi Hugo de Ana
Luci Vinicio Cheli
Coreografia Leda Lojodice
Videoproiezioni Sergio Metalli
Produzione del Teatro Real, in coproduzione con Abu Dhabi Festival, basata sulla produzione originale del Teatro Real del 1998
Madrid, 28 ottobre 2022
Omaggio e celebrazione sono termini di deferenza, che nel mondo dell’opera occorre declinare con misura. Se il mezzo dell’omaggio è Aida, sarà molto difficile evitare gli stereotipi della storia esecutiva e rappresentativa legati a questo titolo. Di tutto questo è certamente consapevole il Direttore Artistico del Teatro Real, Joan Matabosh, il quale presenta l’opera inaugurale della stagione 2022-2023 come un “auto-omaggio”, celebrativo dei venticinque anni della inaugurazione del nuovo teatro nel 1998. Come già era accaduto in occasione del ventennale della riapertura (nonché bicentenario della nascita del teatro), nel marzo 2018 si volle riprendere l’allestimento che Hugo de Ana aveva ideato per la speciale occasione. Alla domanda su che senso abbia proporre nel 2022 un’Aida che visualmente è tutto un succedersi di oggetti sempre più ingombranti, fino all’acme della scena del trionfo, quando devono vedersi «i carri di guerra, le insegne, i vasi sacri, le statue degli Dei» (Ghislanzoni), in cui la superficie del palcoscenico è ricoperta da una foresta di lance, scudi, archi e frecce, con guerrieri nubiani, arcieri sciti, schiavi etiopi, sacerdoti egizi, donne e uomini del popolo che si aggirano all’ombra di obelischi e di piramidi, la risposta è più semplice di quanto si possa immaginare: il fine è creare un allestimento “di repertorio”, che piaccia al grande pubblico, e che permetta al teatro di ammortizzare negli anni i costi di questa e di altre produzioni. Un’Aida anacronisticamente pompier è quindi necessaria per tante ragioni pratiche, in ultima analisi anche per rendere appetibile la musica classica a coloro che la odiano (crude parole di Terenci Moix). Essere anacronistici in modo coerente, però, è difficile, come dimostra per esempio lo stile della coreografia, che invade gran parte dello svolgimento narrativo dei primi due atti, ben al di là di quanto previsto dalla partitura (ma scompare negli ultimi due, con evidente disequilibrio). Sulla qualità degli interventi coreutici, non posso che ripetere quanto già scritto per i lettori di «GBopera» nel 2018: «i balletti di Leda Lojodice non sono sorretti da alcun intento narrativo e neppure affidati all’astrazione: sono puramente decorativi (o peggio ancora riempitivi). Nella scena della consacrazione di Radamès i figuranti iniziano a srotolare candide bende con cui si avvolgono il corpo, come per trasformarsi in mummie; nel II atto il gruppo maschile e quello femminile si affrontano con movenze alquanto triviali e un erotismo da discoteca, senza che si comprenda alcunché» (alla stessa cronaca si rimanda per il resto dell’allestimento). Inoltre, chiunque abbia sia pur piccole cognizioni musicali e un orecchio minimamente avvertito si accorge che questa Aida affianca ad alcuni professionisti del canto altri terremotati vocali, incapaci di interpretare il personaggio loro affidato. In un primo gruppo si possono comprendere le voci di Aida, Radamès e Amonasro, ossia Krassimira Stoyanova, Piotr Beczala e Carlos Álvarez. Per tutti e tre si potrebbe dire che «tornò vano de’ forti l’ardir»: il soprano concentra tutta la sua attenzione nella grande romanza del III atto, «O cieli azzurri … o dolci aure native», l’unico momento in cui la linea di canto sia unitaria ed espressiva; il tenore squadra le frasi con una certa rozzezza, cercando di ridurre lo stridore degli acuti (ma con un risultato imperdonabile nella cavatina: il do finale di «Celeste Aida, forma divina» non è né emesso a piena voce né smorzato, ma sostituito da un sussurro in falsetto, dall’effetto orribile); il baritono è dei tre il più a suo agio con la scrittura verdiana, anche se alcune puntature non sono ben timbrate. Altro gruppo è quello dei cantanti che non reggono la parte («in notte cupa la mente è perduta» …): il mezzosoprano Jamie Barton è un’Amneris insoddisfacente, a causa del registro frammentato, dell’emissione faticosa e della pronuncia incomprensibile; il basso Alexander Vinogradov inizia incerto la parte di Ramfis, migliorando soltanto nel III e nel IV atto. L’altro basso, che dà voce al Re, Deyan Vatchkov, anziché cantare emette rantoli di moribondo. Buono il contributo di Marta Bauza (la Sacerdotessa) e di Fabián Lara (il Messaggero, unico dei solisti vocali che già avesse preso parte alla ripresa del 2018). In tale quadro assai deficitario, la prima responsabilità del direttore, Nicola Luisotti, è di non aver vigilato sull’operato dei cantanti, affinché evitassero l’abuso dei portamenti e la discontinuità nella linea di canto (per nessuno si può parlare di fraseggio). In ogni atto si avvertono anche défaillances dell’orchestra (che culminano in alcuni vistosi disallineamenti con il coro nel finale II). Ma tutto questo è il risultato di un pregiudizio inconfessabile: poiché la musica di Aida è bellissima, tutti amano riascoltarla, comunque sia (beandosi di “riconoscere” quanto in realtà non comprendono, se non in superficie); lo spettacolo, poi, è talmente ricco di elementi scenici, costumi sontuosi, comparsame e tersicorei, che l’esecuzione musicale può anche mancare di una certa rifinitura, perché il successo è garantito (e infatti, questa è la cronaca di un grande successo di pubblico, che va riconosciuto senza condizioni). Il Coro del Teatro Real, preparato da Andrés Máspero, sempre all’altezza della situazione, è il componente musicale più efficiente, in particolare la compagine delle voci maschili; insieme a loro e per i prossimi titoli della stagione madrilena si può ripetere, «preghiam che i fati arridano | fausti». Foto Javier del Real © Teatro Real