Parma, Teatro Regio, Festival Verdi 2022
“LA FORZA DEL DESTINO”
Melodramma in quattro atti su libretto di Francesco Maria Piave dal dramma Don Álvaro o la fuerza del sino di Ángel Perez de Saavedra
Musica di Giuseppe Verdi
Donna Leonora LIUDMYLA MONASTYRSKA
Don Alvaro GREGORY KUNDE
Don Carlo di Vargas AMARTUVSHIN ENKHBAT
Padre guardiano MARKO MIMICA
Fra’ Melitone ROBERTO DE CANDIA
Preziosilla ANNALISA STROPPA
Mastro Trabuco ANDREA GIOVANNINI
Il Marchese di Calatrava MARCO SPOTTI
Curra NATALIA GAVRILAN
Un alcade JACOBO OCHOA
Un chirurgo ANDREA PELLEGRINI
Orchestra e Coro del Teatro Comunale di Bologna
Direttore Roberto Abbado
Maestro del coro Gae Garatti Ansini
Regia, scene e costumi Yannis Kokkos
Drammaturgia Anne Blancard
Luci Giuseppe di Iorio
Movimenti coreografici Marta Bevilacqua
Projection Designer Sergio Metalli
Nuovo allestimento del Teatro Regio di Parma in coproduzione con Teatro Comunale di Bologna, Teatro Massimo di Palermo, Opera Orchestre National Montpellier Occitaine
Parma, 1 ottobre 2022
I contestatori della serata inaugurale devono essersi defilati con la coda fra le gambe davanti a questa Forza del destino: già solo per il titolo, e poi per il resto della locandina, si preannunciava pezzo forte di questa edizione del Festival Verdi, stimolando la salivazione dei melomani più pessimisti, e le aspettative non sono state deluse. La questione era che la serata inaugurale lasciata ai complessi bolognesi sarebbe un’onta per l’onore parmense (che come si sa quello spagnolo gli fa un baffo) e il parafulmine designato il povero Roberto Abbado. Che invece dopo questa esperienza spero se la sentirà di pronunciare senza tema alcuna il titolo menagramo. L’edizione è quella milanese, con la sinfonia e il finale della redenzione, perché, spiega il direttore, molto semplicemente, è migliore di quella sanpietroburghese, e un festival non deve per forza lasciar pensare che non sappia più cosa inventarsi per tenersi in vita, soprattutto se non è così.
Descrivere la direzione di Roberto Abbado e poi la produzione di Yannis Kokkos senza ripetere gli stessi aggettivi riuscirebbe difficile: asciutta, sobria, funzionale, agile, efficace. E per Abbado si aggiungano anche vigorosa ed equilibrata. Un mirabile esempio di concertazione come si deve è sotto gli orecchi di tutti nella frase di Leonora Più tranquilla l’alma sento, dal duetto con il Padre Guardiano. E sempre magnifica l’Orchestra del Comunale di Bologna, un’orchestra che non gliela si fa, e se capita un direttore poco gradito non perdona, ma se approva dà il meglio di sé. Incantevole l’assolo del clarinetto di Simone Nicoletta, nei confronti del quale il Maestro ha saputo mostrarsi giustamente generoso.
Ottimo anche il coro, da qualche tempo passato dalle cure di Alberto Malazzi a quelle di Gea Garatti Ansini, espostissimo in quest’opera e, giustamente, impegnatissimo del pari scenicamente. Dai contadini che chiedono il pane, parenti dei fiamminghi che implorano pietà nel Don Carlos, ai ragazzini che chiedono la mamma: ecco il mondo intero che attraversa la Forza, sempre con suono corposo e pieno ed espressione individuale.
La regia essenziale, narrativa e pulitissima risulta, come si è detto, efficace e poi, nell’ultimo atto, sfodera quinte rocciose di grande incisività e suggestione. Forse si sarebbero potuti evitare i fondali animati che poco o nulla aggiungevano allo spettacolo.
Dopo Ernani, Rodolfo (nella Luisa Miller) e Otello, per l’Eroe dei due repertori (e, ora si può ben dire, dei due Festivals) viene l’interminabile e massacrante ruolo di Alvaro. Gregory Kunde conserva una voce voluminosa e squillante, solo ha perso un po’ di smalto nel timbro, che tuttavia è tutt’altro che fioco. Ma soprattutto c’è un grande artista (cioè un gran furbastro) che sa amministrare il proprio patrimonio, non sbaglia un colpo, si fa trovare sempre in forze dove l’aspetti e ti stupisce dove non l’aspettavi. Tipico dei grandi, il recitativo è più bello dell’aria: il personaggio c’è. Certo, ci sono anche i sessantotto anni, ma l’unico sintomo, se proprio si vuol scovare il pelo, è quella tendenza a masticarsi il suono sull’ultimo trascinarsi del fiato. Solenne in quest’ora però non è masticato come un maligno potrebbe malignare: sfoggiava la sua caratteristica mezza voce. Poi c’è Amartuvshin Enkhbat, per gli amici Amar, un timbro candidato ad entrare nel mito, anzi già eletto ad unanimità. Ma non lo si riduca ad un prodigio di natura: per dizione impeccabile, musicalità, varietà di accenti espressivi, se esiste il cosiddetto baritono verdiano, è lui. Un Padre guardiano giovane e giovanile, liberatosi dalla ieratica rigidità, non è più distaccato dagli uomini ma soffre insieme a loro. E però ha altri orizzonti, e lo ricorda il timbro lussuoso di Marko Mimica, che scomoda tutta la sua voce soltanto nella maledizione contro chi tentasse di avvicinare l’ignoto eremita e il suo mistero, giocando tutto il ruolo sull’eleganza del canto, sull’articolazione delle frasi. Roberto De Candia raccoglie la lezione di Bruscantini con quel puntiglioso accento S’apre alle cinque la Chiesa (della serie: se ti presenti alle cinque meno dieci resti poi fuori) e senza mai bisogno eccedere, né di scivolare in alcuna caccola, ha per sé tutta la simpatia del pubblico. Così pure Mastro Trabuco, Andrea Giovannini, che si spinge un poco oltre ma la sua disinvoltura in scena glielo consente. Avere un Marchese di Calatrava come Marco Spotti è, per essere eleganti, “grasso che cola”. Annalisa Stroppa è un mezzosoprano sì, ma non delle caverne, come si addice a Preziosilla: un mezzosoprano che sappia essere brillante e musicale come un Oscar, o il Rataplan non gli perdonerebbe, e invece ha funzionato a meraviglia. Sulla Leonora di Liudmyla Monastyrska grava un vibrato che dà qualche noia, ma a parte questo la voce è grande e scorre fluida. L’anello più debole, forse, di questa gloriosa catena, al quale si perdona volentieri in una serata esaltante che ci fa ricordare come mai ci piace tanto andare all’opera. Foto Roberto Ricci