Monza, Teatro Binario 7, Stagione 2022/23 – Tempo Presente
“IL GENTILUOMO”
da Molière
con MAURIZIO BRANDALESE, VALENTINO PAIANO, ALESSIA VICARDI, ALBERTO VISCARDI
Drammaturgia e Regia Corrado Accordino
Produzione Compagnia Teatro Binario 7
Monza, 28 ottobre 2022
Il quarto centenario della nascita di Molière ha giustamente prodotto un revival dell’opera del genio teatrale francese un po’ in tutta Europa: in Italia si è assistito alla ripresa per lo più dei titoli più classici – “L’avaro”, “Il malato immaginario”, “Il misantropo” – mentre altri testi formidabili – ci vengono in mente, così su due piedi, “Le intellettuali”, “Tartufo”, la riscrittura del plautino “Anfitrione” o lo stesso “Don Giovanni” che suggestionò Da Ponte – sono rimasti più nell’ombra. Il Teatro Binario 7 di Monza, realtà recente ma già affermata e ampiamente riconosciuta nell’alveo meneghino, ha deciso di puntare, per il suo omaggio, sul “Borghese gentiluomo”, testo che appartiene alla maturità di Molière, drammaturgicamente complesso, sia nel gioco tra i personaggi, sia nel conclamato intento satirico, sia nella produzione trionfalmente barocca che l’autore intese per esso (comprendente musiche, danze e canzoni di Lully, costumi sfarzosi disegnati dall’influente Chevalier d’Arvieux, scene del Vigarani, vera archistar dell’epoca). Con questo testo l’opera di Molière si affermò quasi come un’antesignana della Gesamtkunstwerk cara a Wagner, proponendo un’alternativa al melodramma italiano, che, tuttavia, godesse di una sorta di “garanzia di italianità” nella figura di Jean-Baptiste Lully (al secolo, Giovan Battista Lulli, fiorentino espatriato), come già dal “Matrimonio forzato” del 1664. Per Lully, nello specifico, le musiche di scena del “Borghese gentiluomo” rappresentarono un vero punto d’arrivo della sua maturità artistica, apoteosi di quel lullismo che fece scuola in Francia (pensiamo a Charpentier e Marais) e si attirò nel XVIII secolo le critiche dei più engagé ramisti (cioè i seguaci di Rameau, primo rivoluzionaro dell’opera francese). Non ci spingeremo oltre con il background storico-culturale dell’opera: ci basti questo per intuire l’effettivo portato che “Il borghese gentiluomo” incarna. Spiace, tuttavia, constatare come tutto ciò non sia stato preso in considerazione da Corrado Accordino nella drammaturgia e messa in scena della sua versione del capolavoro molieriano: per quanto, infatti, sia naturale, oggigiorno, tagliare e adattare l’opera del drammaturgo francese, ci si aspetterebbe che questo venga fatto per avvicinare il pubblico contemporaneo alla grandezza dell’originale, e non mediante il processo inverso – ossia diminuire, scarnificare, distorcere il testo originale per renderlo digeribile al secolo. Ahimè, invece, quasi ogni aspetto dell’intervento di Accordino su Molière è atto alla sua destituzione, a partire dalla lettura del testo nella chiave della Commedia dell’Arte, con tanto di nomi dei personaggi cambiati in Pantalone, Colombina e Arlecchino e l’uso delle maschere tradizionali e anche delle movenze necessarie a quest’uso: tutto è fatto con grande cura, ma nulla avrebbe ferito Molière più di questo, considerato che il suo più grande traguardo per la drammaturgia francese è proprio il superamento dei canoni comici à l’italienne e la fondazione di una comédie française. È come se interpretassimo Brecht in maniera naturalistica: probabilmente ci sarebbe più digeribile, ma il risultato sarebbe profondamente sbagliato, poiché irrispettoso dell’autore. Certo, oggi si vede di tutto e si fa di tutto con i classici: tuttavia si dovrebbe avere la coerenza, anche il coraggio, di non usare il nome altisonante dell’autore sul quale interveniamo per attirare pubblico – non basta omettere la parola borghese dal titolo e scrivere da al posto che di prima del nome dell’autore. In ogni caso, l’adattamento alla Commedia dell’Arte è uno dei diversi accomodamenti che Accordino opera sull’originale: ci possiamo, prevedibilmente, scordare l’apparato musicale di Lully; anzi, l’unico pezzo, del tutto arbitrario, sul finale, è l’“Autunno” di Vivaldi, che contribuisce a confondere il pubblico sul momento storico di attività di Molière – e infatti sentiamo chiaramente, tra il pubblico, espressioni come “teatro del Settecento”, “sembra Goldoni” eccetera.Già: sembra Goldoni. I costumi sono settecenteschi, ci sono le maschere, il protagonista parla con accento veneziano, parte Vivaldi sul finale. Invece dovrebbe essere Molière, una quintessenza di francesità. Terzo, ma non ultimo, benché qui ci fermeremo, aspetto disorientante dell’adattamento è il finale, quasi faustiano, in cui il povero Pantalone (il gentiluomo del titolo) muore d’infarto nel realizzare di aver ceduto la mano della figlia, tutte le sue fortune e pure la sua serva prediletta a un giovane scapestrato, mentre il Conte cui sperava di maritare l’erede se l’intende con la Marchesa vedova che lui stesso desiderava impalmare. Affascinante soluzione, quanto arbitraria: nell’originale il gabbato Jourdain (questo il nome del borghese gentiluomo) si rende conto dei suoi errori e accetta di buon grado lo stato delle cose, per lo più grazie a un personaggio del tutto omesso qui, cioè sua moglie. Per quanto concerne il cast, in ogni caso, siamo di fronte a quattro attori di ottime capacità e dalle solidissime basi, questo è innegabile: Maurizio Brandalese porta in scena non solo la parlata veneziana, ma anche la spiccata musicalità della voce, che spesso diventa un vero e proprio fraseggio; il suo è evidentemente un apporto di parola, ma, forse proprio per questo, risulta più agrodolce, soprattutto alla luce del finale tragico; Valentina Paiano e Alessia Vicardi compongono una coppia scenica di grande effetto, entrambe pienamente consapevoli sia sul piano fisico che su quello vocale, sono la forza motrice della scena, in un’instancabile prova d’attrice; Alberto Viscardi dei quattro è forse il meno convincente sul piano vocale, ma è senz’altro quello che propende di più alla gag, al gioco dell’improvvisazione. Tuttavia anche proprio questo continuo muoversi, parlare, parlarsi uno sull’altro, questa fiumana di parole incessante, che dalla scena deborda sul pubblico, rischia di diventare, alla lunga, un sottofondo anestetizzante, un brusio senza significato. E qui torniamo al punto iniziale: considerato quanto Molière sia stato importante per la codifica di una lingua francese comune, e quanto egli stesso tenesse alla parola che i suoi personaggi esprimono, non si può ridurla a continua e incalzante burla scioccherella. È forse questo il modo migliore per celebrare la figura intellettuale del drammaturgo francese? Non riusciamo a crederlo. Foto Stefano Boccioni