Parma, Teatro Regio, Festival Verdi 2022
“SIMON BOCCANEGRA”
Melodramma in un prologo e tre atti su libretto di Francesco Maria Piave e Giuseppe Montanelli dal dramma Simón Boccanegra di Antonio García-Gutiérrez.
Prima versione per la Fenice di Venezia, 1857
Musica di Giuseppe Verdi
Simon Boccanegra VLADIMIR STOYANOV
Maria Boccanegra ROBERTA MANTEGNA
Jacopo Fiesco RICCARDO ZANELLATO
Gabriele Adorno PIERO PRETTI
Paolo Albiani DEVID CECCONI
Pietro ADRIANO GRAMIGNI
Un’ancella di Amelia CHIARA GUERRA
Filarmonica Arturo Toscanini
Coro del Teatro Regio di Parma
Direttore Riccardo Frizza
Maestro del coro Martino Faggiani
Regia Valentina Carrasco
Scene Martina Segna
Costumi Mauro Tinti
Luci Ludovico Gobbi
Nuovo allestimento del Teatro Regio di Parma
Parma, 29 settembre 2022
Niente plebe, niente patrizi ma un popolo, quello sì, feroce, che sguaina coltelli, squarta buoi e griglia salsicce. Ha (o, meglio: avrebbe) ragione la regista Valentina Carrasco perché questa del Festival Verdi 2022 è la prima versione veneziana del Simone, non quella rimaneggiata assieme a Boito quasi cinque lustri dopo, più o meno il tempo che separa il prologo dal primo atto. La trama è la stessa, ma l’opera è un’altra. E senza scena del consiglio coi pianti per la pace nel mondo il volto del Doge Boccanegra è più quello d’un pragmatico che d’un idealista. A logica tout se tient: porto, macello, ferocia del potere. Ma l’opera è anche festa dei sensi, orgia estetica, e se quello che si vede disturba l’ascolto allora forse non va. Poi quando si torna a casa magari si scomoda anche il cervello, ma finché si è a teatro orecchie e occhi richiedono già abbastanza attenzione. Francamente non troviamo così disturbanti le carcasse bovine appese al macello, soprattutto se sono di materiale plastico: sono simboli al pari dei fiori finti. Però se sono simboli e sono finti perché annaffiarli, ci si domanda; forse per riempire l’imbarazzo creato dal da capo della cabaletta, ci si risponde. In generale siamo per le poche idee, se poi sono anche buone ancora meglio, ma soprattutto che siano poche. Le proiezioni iniziali, la festa di Simone tipo festa dell’Unità e in generale i costumi lasciano pensare ad un allestimento in cui alla plebe corrispondono gli operai, ai patrizi i capitalisti, dal dopoguerra del prologo ad un circa Anni Settanta del primo atto, e via di seguito. Poi si scopre che invece è un allestimento che comincia così, è vero, ma da grande vuol diventare astratto, metaforico, parlare per simboli, fino all’agnello purificatore. Mi stanno benissimo entrambe le carriere: bisognerebbe solo sceglierne una. Come si sa le proteste si sono concentrate su quei pezzi di carne, che come simboli in qualche modo si giustificano nella lettura della regista, e non, per esempio, sul finale colmo di luminose speranze in aperta contraddizione con l’aura lugubre degli ultimi accordi e col pensiero verdiano, contraddizione che segnala la stessa regista sul programma di sala. Oppure sul personaggio di Amelia-Maria ridotto alla bimbetta con le ditina sporche di marmellata e le tasche piene di caramelle, con il mollettone per i capelli e le ciabattone di plastica: e pensare che la ragazza di politica ne capisce, ha colto della congiura, sa come si risponde a un Doge della fazione avversa e anche come farsi liberare da un brutto tipo come Lorenzin, l’usuriere. E poi perché non rassegnarsi al fatto che senza scena del Consiglio il Simone non è più un’opera così politica ma, ancora una volta, familiare? In fondo l’unico momento solistico del protagonista è O refrigerio! La marina brezza: dimensione più intima che politica. Ad ogni modo, se se ne discute vuol dire che non si trattava di provocazione fine a se stessa, quindi bene così.
E benissimo musicalmente. Vladimir Stoyanov (Simon Boccanegra) è un cantante molto astuto e di grande esperienza, che sa celare qualsiasi difficoltà aggirandola. Solo un’ombra nasale aleggia, ma l’interprete, anche se non dà i brividi, è sufficientemente attento alle sfumature. Roberta Mantegna (Amelia/Maria)ha un mezzo vocale assai lussuoso per dimensioni, dallo smalto brillante, voce generosa, che corre per il teatro, e infatti tornano indietro gli applausi. L’emissione è solida e il suo canto non ha difetti, ma il fraseggio è un po’ generico, così l’espressione. Piero Pretti (Gabriele Adorno) invece proprio per accenti e sfumature si distingue, giocando con la sua grande musicalità ed esibendo il suo lucentissimo squillo, senza il quale resterebbe spaesato. Riccardo Zanellato non ha certo un “vocione”per corpo e pienezza, ma riesce a creare la voce “nera” di Fiesco, quindi è perfetto. Il Paolo Albiani di Devid Cecconi è forse il più personaggio di tutti, il più coerente, il più riuscito, personaggio che in questa prima versione non è sacro alla bipenne ma anzi la fa franca, a proposito di pessimismo verdiano; la voce sembrava un tantino fibrosa ma si è sciolta in corso d’opera. Completano correttamente il cast Adriano Gramigni (Pietro) e Chiara Guerra (Ancella di Amelia).
Ottimo il coro del Regio diretto dal Maestro Martino Faggiani, un coro che sa prendersi il suo posto nel dramma facendo valere la vasta tavolozza di colori, inflessioni e dinamiche di cui dispone. Similmente, niente avremmo desiderato di più dalla Filarmonica Toscanini e dall’Orchestra Giovanile della Via Emilia. Il Maestro Riccardo Frizza, oltre alla precisione, ha ottenuto un suono luminoso; per nostro gusto un po’ strette le code dei finali d’atto: ma gli va riconosciuto come non solo per il canto questa prima versione debba guardare più a Rossini e a Donizetti che all’Aida e all’Otello, di cui pure si trovano tante intuizioni. Forse la sala era piena di vedovi e vedove piangenti la seconda versione, ad ogni modo peccato che di tutto questo sia rimasto poco, se un signore all’uscita ha rinverdito la fama dei melomani quali gente di spirito così riassumendo la serata: “è stato un macello”. Foto Roberto Ricci