Milano, Teatro alla Scala, Stagione sinfonica 2021-20
Sächsische Staatskapelle Dresden
Sächsische Staatskapelle Dresden
Direttore Christian Thielemann
Anton Bruckner: Sinfonia n. 5 in si bemolle maggiore*
Anton Bruckner: Sinfonia n. 5 in si bemolle maggiore*
Ludwig van Beethoven: Sinfonia n. 8 in fa magg. op. 93; Sinfonia n. 7 in la magg. op. 92
Milano, 8* e 9 settembre 2022
Per il concerto inaugurale della stagione sinfonica, lo scorso 25 novembre, Thielemann aveva sostituito in extremis Esa-Pekka Salonen, indisposto, alla guida della Filarmonica della Scala. L’entusiasmo del pubblico quella sera andava oltre l’apprezzamento per l’ottima esecuzione: era anche riconoscenza per la repentina e inaspettata sostituzione, e c’era un certo gioioso orgoglio nel vedere la Filarmonica della Scala diretta dal prestigioso Maestro tedesco, dopo così tanto tempo (l’ultima volta era il 1993).
L’8 e il 9 settembre Thielemann è tornato per due programmi con l’orchestra-santuario-roccaforte della tradizione tedesca, la Sächsische Staatskapelle di Dresda. È una di quelle pochissime orchestre che da sempre custodiscono un loro suono identitario, col quale si rendono immediatamente riconoscibili. Quello di Dresda, a dispetto di Schopenhauer, che con sagacia innescata da livore personale individua quale “vero carattere nazionale dei Tedeschi” “la pesantezza”, è un suono trasparente. Lo si apprezza specialmente in Bruckner.
Distante più che mai dall’edonismo cromatico francese, Bruckner tuttavia impasta i timbri sonori in una ricerca che si svolge incessantemente nell’arco di tutta la sua produzione. Rischiando di minare, così, l’intelligibilità dell’architettura compositiva, cosa di cui anche il più sprovveduto degli ascoltatori ha senz’altro triste esperienza: è facile che una sua sinfonia si trasformi in un’agonia colossale, con colate di suoni confusamente sovrapposti, impasti sonori lievitati oltre ogni ragionevole misura, traboccanti, che ti sembra di entrare in una fonderia infernale. L’orchestra di Dresda diretta da Thielemann è invece la fucina di Vulcano, dove le fiammate volano alte, possenti ma leggere, e ci vedi attraverso, o meglio ci senti attraverso. Il disegno compositivo è sempre distinto. È palpabile, per l’ascoltatore, come ogni orchestrale ascolti i colleghi delle altre sezioni e così avviene quella sorta di miracolo per cui una diecina di violoncelli non coprono un flauto, per dire. L’orchestra non restituisce mai una sola tinta sonora, mai che una si guadagni la prima fila schiacciando le altre: ma sempre una filigrana ordinata, in cui ciascuna sezione ha la sua dovuta preminenza, e tutti convivono distintamente. La Quinta, per altro, è l’ultima, cronologicamente, del ciclo completo che Thielemann sta incidendo coi Wiener per la Sony in questi anni.
Il secondo concerto, quello beethoveniano, ha riempito la sala e suscitato consensi ancora maggiori, ma in tutta franchezza crediamo che non ci fosse altro motivo che la maggiore popolarità del programma. Anzi, mentre il Bruckner di Thielemann è da tenere presente come riferimento, altrettanto non possiamo dire del suo Beethoven: vigoroso ed energico ma, e qui sorride Schopenhauer, monumentale e greve. L’ottava, formalmente la più perfetta delle nove, nella sua esecuzione ha ben poco di classico, con un Allegretto scherzando che di scherzare non ne ha voglia e un Allegro vivace che più che vivace è aggressivo; e la settima, più martellante che danzante, si trascina soffocata sotto un mantello troppo pesante, una pompa troppo maestosa. Per carità: non una goccia di muco nei corni, non un millesimo di difetto nei pizzicati, tutto ineccepibile. Tranne il gusto. Poi, mentre i loggionisti correvano per le scale fino al primo ordine di palchi assetati di locandine (quelle, più numerose, del loggione prenotate dai membri dell’orchestra), Thielemann concedeva un bis più brillante dell’intero concerto: nell’ouverture del Coriolano tutta la lussuosa prosperità del suono è sostenuta da un’energia irresistibile e trascinante. Eppure, ma forse solo per il risentimento d’esser rimasto senza locandina, c’era chi, ritirandosi, mormorava: “Molto bello, sì, ma un po’… tedesco.”