Torino, Regio Opera Festival 2022: “Don Checco”

Torino, Regio Opera Festival 2022, Cortile di Palazzo Arsenale
“DON CHECCO”
Opera buffa in due atti su libretto di Almerindo Spadetta. Dialoghi rielaborati da Mariano Bauduin
Musica di
Nicola De Giosa
Don Checco Cerifoglio DOMENICO COLAIANNI
Bartolaccio CARMINE MONACO
Fiorina MICHELA ANTENUCCI
Carletto DAVID FERRI DURÀ
Il signor Roberto VLADIMIR SAZDOVSKI
Succhiello Scorticone FRANCESCO AURIEMMA
Don Mario Luzio MARIO BRANCACCIO
Orchestra e Coro del Teatro Regio di Torino
Direttore
Francesco Ommassini
Maestro del coro
Andrea Secchi
Regia
Mariano Bauduin
Scene
Claudia Boasso
Costumi Laura Viglione
Luci
Lorenzo Maletto
Nuovo allestimento del Teatro Regio di Torino
Torino, 28 e 30 luglio 2022
Per scherno della sorte, in un’estate calda e secca quant’altre mai, durante la quale l’attenzione dei media è insolitamente concentrata sui danni provocati dalla siccità, il maltempo è riuscito a rovinare due recite su tre della nuova produzione di Don Checco, allestita dal Regio nel cortile dello storico Palazzo torinese dell’Arsenale: la prima del 26 luglio è stata completamente annullata, la performance del 28 è stata interrotta a una ventina di minuti dalla fine per il sopraggiungere di un temporale; sicché l’unica recita andata regolarmente in porto è stata l’ultima, sabato 30 luglio. E spiace particolarmente che questo sia avvenuto per un titolo che mancava a Torino dal XIX secolo, che il Teatro Regio non aveva mai proposto, e i cui allestimenti moderni si contano sulle dita di una mano. Il sottoscritto ‒ che vi aveva assistito a Martina Franca nel 2015 ‒ era probabilmente uno dei pochi presenti ad esserne già stato spettatore; ma non si può dire che i torinesi abbiano mostrato un incontenibile desiderio di scoprire la rarità, dato che la platea contava abbondanti posti vuoti. Chi ha vinto la pigrizia è stato compensato da uno spettacolo gradevole che, pur con qualche limite (uno per tutti: si sentiva troppo spesso la voce del suggeritore), ha permesso di apprezzare una partitura che godette di straordinario successo nei primi decenni di vita in virtù della capacità del compositore Nicola De Giosa ‒ in un’epoca (1850) in cui il teatro buffo stava passando di moda, ma non era affatto morto come alcuni credono ‒ di inserirsi nella tradizione buffa napoletana, adottando alcuni tratti della farsa (il personaggio dialettale e i passi recitati in prosa) e portando in scena un concentrato di tópoi del teatro comico che avrebbero avuto sicura presa sugli spettatori. Non è difficile cogliere l’eco di citazioni rossiniane e donizettiane, sia sul piano musicale sia su quello drammaturgico, e pare proprio di vedere in scena, per così dire in miniatura, il doppio dei protagonisti di tanti titoli di successo. Tuttavia, sarebbe superficiale annoverare l’opera tra i casi di mero epigonismo, perché le sue melodie incalzanti e la presenza del valzer guardano inconfutabilmente al futuro, a quel teatro d’operetta che di lì a breve avrebbe conquistato il pubblico dell’opera buffa. La vicenda, piuttosto cliché, narra di due giovani innamorati (Carletto e Fiorina) contrastati dal padre di lei (l’oste Bartolaccio), e involontariamente aiutati, dopo alcune peripezie, dal passaggio di un debitore in fuga dai propri creditori (Don Checco). Il genere si prestava fin dall’origine a una certa malleabilità esecutiva, come testimoniano le recensioni d’epoca, che raccontano delle libertà che Raffaele Casaccia, primo interprete del protagonista, si prendeva nei passi in prosa, dove intratteneva gli spettatori raccontando le proprie difficoltà di vita. Così, non risulta priva di senso la scelta del regista Mariano Bauduin, che ha parzialmente riscritto (ed espanso) le parti recitate, posticipando l’ambientazione di alcuni decenni, trasferendola dalla campagna all’ambiente urbano e introducendo il personaggio di don Mario Luzio (l’attore Mario Brancaccio), impresario del teatro San Carlino, che permette di sviluppare il tema del debito nell’ambiente teatrale cui Don Checco accenna nella sua aria finale. Più discutibile la scelta di interpolare brani musicali non scritti in partitura: ne erano previsti due, ne è stato eseguito uno solo (la canzone Palummella, zompa e vola), che, all’inizio del II atto, ha aperto una parentesi delicatamente nostalgica, in sé stessa gradevole ma estranea al contesto. Il regista non ha comunque fallito l’obiettivo di dar vita a uno spettacolo fresco che restituisse lo spirito della partitura. Spirito che è stato colto con efficacia anche dal direttore Francesco Ommassini, il quale ha ben delineato le tinte orchestrali, a partire dal preludio, che alterna allegria e mestizia, e dal valzer pensieroso che funge da intermezzo, pagine che rivelano come la scrittura di De Giosa andasse ben al di là del facile intrattenimento; ha sbalzato con carattere i numeri d’assieme, in particolare il quintetto del II atto; e ha garantito l’esecuzione integrale di una partitura che abbonda di riprese melodiche.
Tra i solisti si è percepito un affiatamento crescente che ha reso la recita del 30 luglio più gradevole e coinvolgente di quella del 28. Il soprano Michela Antenucci è dotata di una spontanea brillantezza grazie alla quale tratteggia con efficacia e brio la figura di Fiorina, anche se alcune variazioni virtuosistiche del rondò rischiano di risultare un po’ eccessive per il suo strumento. David Ferri Durà è un tenore leggero che inserisce Carletto nella tradizione dell’amoroso di primo Ottocento, ma gli manca quella solidità che occorrerebbe per dare maggiore rilievo al personaggio. Specialisti del repertorio sono i due buffi, che con stile e tecnica appropriati danno vita alle figure più caratteristiche di questo genere d’opera, e nel duetto del II atto si scatenano in un sillabato parossistico che dimostra come questo titolo abbia avuto fortuna nel far propri, a livello caricaturale, i tratti prototipici del melodramma buffo. In questi casi il successo è spesso più questione di esperienza e scaltrezza che di sostanza vocale, e lo stesso De Giosa prescriveva al protagonista di regolarsi come se dovesse recitare in prosa anziché cantare: il baritono Domenico Colaianni (Don Checco) da decenni è maestro nei ruoli “parlanti”, e anche oggi ‒ nonostante la voce suoni a tratti spoglia ‒ dà vita a un personaggio di profonda umanità, che mediante i lazzi esprime il proprio disagio interiore. Il baritono Carmine Monaco, dalla voce lievemente più florida, tratteggia con proprietà di linguaggio l’oste Bartolaccio, contraltare del protagonista che ne condivide parte delle miserie ma non il carattere tormentato. Hanno fatto degna corona i bassi Vladimir Sazdovski (il signor Roberto, creditore di Don Checco sotto mentite spoglie) e Francesco Auriemma (Succhiello Scorticone, esattore). In forma, come di consueto, l’Orchestra e il Coro (impegnato nelle sole voci maschili) del Teatro Regio; quest’ultimo, nel II atto, gode di un articolato numero interamente ad esso dedicato.
Il Regio Opera Festival, dopo la pausa agostana, si conclude nel mese di settembre, con due appuntamenti dedicati alla danza: l’8 e 10 settembre saranno ospiti Svetlana Zakharova e Vadim Repin; il 14, 15 e 17 settembre il Béjart Ballet Lausanne. Foto Fabio Melotti