Dal 31 marzo 2022 al 7 gennaio 2023
Orari: Tutti i giorni dalle 10.00 alle 17.30
Chiuso il mercoledì. Biglietti: Intero 12 €
Dopo aver visitato la mostra, si possono ben riprendere le parole del curatore Stefano Causa: “Oltre Caravaggio e saremo per dire malgrado lui” e alla faccia della mania odierna per Michelangelo Merisi, che ormai è citato, nominato e qualche volta forzosamente confrontato a tutti i pittori del globo terracqueo.
La pittura napoletana presenta una tale molteplicità di esperienze, d’influssi d’intrecci tra pittori locali e forestieri, che basta mettere in fila i quadri per scoprire “nuovi nessi e connessioni, potendo contare su un serbatoio infinito” di suggestioni.
Prima di descrivere l’esposizione, da vedere assolutamente, sia per gli appassionati sia per i curiosi uno sguardo all’ambiente: le 24 sale ricavate da suddivisioni di spazi più ampi si articolano in nicchie, sporgenze, incavi atti a accogliere e mettere in luce le opere, i colori caldi delle terre meridionali esaltano i colori dei quadri e ci fanno star bene fisicamente elemento unificatore le spesse cornici delle aperture e degli zoccoli delle pareti che si espandono visivamente sul pavimento.
Ogni sala si presenta da un titolo che ne annuncia l’argomento e ci introduce ai soggetti della quadreria.
L’esposizione ripercorre attraverso le duecento opere, le collezioni permanenti di pittura seicentesca del Museo. La scelta dei curatori Stefano Causa e Patrizia Piscitello svela quello che è spesso dimenticato dei nostri musei: i depositi sono il patrimonio vero – il corredo da sposa – e solo attraverso lo studio e il rimescolamento di questo corredo è possibile ricomporre e ripresentare la visione di un periodo e ampliare gli studi verso altri infiniti confronti.
E a tutti quelli che ci invitano a vendere, le opere “nascoste” nei depositi per pagare i debiti dello Stato, si deve rispondere: “Vergogna! Questi uomini e donne che vestivano con amplissime gorgiere, ridicole brache di velluto e piume sgargianti sui cappelli ci hanno lasciato quello che noi, ancora adesso ci vendiamo al mondo come esempio del nostro talento, come se lo avessimo fatto o commissionato noi, e voi volete venderlo per poter scialacquare ancora con i soldi dello Stato.”Dalla riscoperta del Seicento napoletano da parte di Roberto Longhi che inquadra quella pittura derivata da Caravaggio in maniera definitiva, un lungo periodo è trascorso, ripensamenti e riflessioni che hanno dato dei risultati più articolati, non è tutto così semplice la realtà è molto più complessa e si vede nelle opere esposte.
Innumerevoli sono gli artisti di formazione locale, o arrivati da altri lidi che definiscono la pittura napoletana e che trasformano le suggestioni caravaggesche e le superano e che si esprimono in vari generi: mitologia, soggetti devozionali, paesaggi, ritratti, nature morte, piccoli quadri “da stanza” perlopiù devozionali ma anche a carattere erotico.
La città accoglie tutto questo lavorio, la ricca committenza sia religiosa sia laica si lasciare trasportare da quest’arte che da tardo manierista e caravaggesca si trasforma in una nuova espressione artistica che si proietta sulla scena europea.
Tra gli innumerevoli artisti forestieri– e sono davvero tanti i talenti che vediamo in questa raccolta – dobbiamo ricordare nella prima metà del secolo l’iberico Jusepe de Ribera, il parmense Giovanni Lanfranco, la romana Artemisia Gentileschi, e nella seconda metà del secolo, il calabrese Mattia Preti e forse il più grande, di questo periodo il napoletano, Luca Giordano, riverito e famoso chiamato in tutta Italia e alla corte del re di Spagna. Jusepe de Ribera (1591-1652) noto come lo Spagnoletto è attivo negli anni ’20 del Seicento ed è considerato il caposcuola dei caravaggeschi. D’altronde la sua venuta a Napoli da Valencia è proprio legata alla sua fascinazione nei confronti di Caravaggio. Il primo periodo della sua permanenza è caratterizzato da un vigoroso senso per la realtà con colori forti e con accentuata emotività, nella maturità anche per influenze nordiche i colori diventato più nitidi, luminosi con stesure ampie. In mostra lo straordinario Sileno ebro (1626) – diventato l’icona della mostra – e l’Apollo e Marsia (1637), da confrontare subito, con l’identico soggetto interpretato da Luca Giordano nel 1660.
Giovanni Lanfranco (1582-1647) allievo di Agostino Carracci si formò prima a Parma e poi al seguito di Annibale Carracci a Roma. Arriva a Napoli dopo gli affreschi sulla cupola di Sant’Andrea della Valle. Le commissioni saranno prestigiosissime dal Duomo, alla Certosa di San Martino, alla Cappella del Tesoro, alla chiesa dei Santi Apostoli. La sua pittura si dichiara in mostra con La Salvazione di un’anima (1613) dove appaiono tutti i tributi che riserva alla pittura emiliana: figure sinuose ed eleganti, colori molto chiaroscurati, composizione che si avvolge a spirale tra vesti sontuose e sguardi reciproci. Artemisia Gentileschi (1593 – 1653) la talentosa pittrice romana arriva a Napoli in due momenti, tra gli anni trenta a cinquanta prima della sua morte. Del primo periodo l’Annunciazione (1630). Il quadro è diviso verticalmente da uno spazio scuro, alla destra l’angelo riccamente vestito già notevolmente barocco, sulla sinistra la modesta Madonna
che ci appare affiorante dal nero sfondo con lumeggiature e che rivelano le forme. Dal secondo periodo del secolo emerge il calabrese Mattia Preti (1613 -1699) pittore dai molteplici influssi (romani, veneti, bolognesi) – legati anche al suo vagabondare in Italia. Del periodo napoletano, forse il più caravaggesco, per il forte naturalismo, per le teatrali composizioni, per le viste di sottinsù, per il virtuosismo pittorico si ricorda il Cristo che scaccia Satana che precipita da un monte (1656) e il Convitto di Baldassare (1668). (1634 – 1705) ma ecco arrivare il campione Luca, pittore napoletano attivissimo in città ma anche a Firenze, Madrid, Roma; la su formazione fa riferimento ai Carracci, a Pietro da Cortona, ma anche a Ribera, Lanfranco e Preti. E questo riferimento ai grandi pittori napoletani non verrà mai meno neppure nelle opere più mature, facendo di lui il più completo artista seicentesco.
La committenza lo premia, le maggiori chiese e l’aristocrazia napoletana prima e spagnola dopo – stato in cui soggiornerà per dieci anni – gli permettono di esercitare la sua opera su vari temi e con tecniche che lui sa egregiamente interpretare.
Tra le molte opere in mostra interessante il confronto tra due opere con lo stesso soggetto: Apollo e Marsia (foto 4), la prima quella eseguita da Ribera nel 1637 e un ventennio dopo di quella di Giordano, in cui i tratti comuni si mescolano a interpretazioni originali dei due pittori. In entrambe le immagini vediamo i drammatici chiaroscuri, le emozioni estremizzate, la scena proiettata in avanti alla base del quadro, la disposizione delle figure sulla diagonale della composizione, la prospettiva scorciata.
La scena di Ribera è però distesa in orizzontale, e i colori si schiariscono agli estremi per far intravvedere, sulla destra, gli amici satiri che inorridiscono per il supplizio del compagno e sulla sinistra l’azzurro e l’oro del cielo che affiora tra le pieghe vorticose del mantello di Apollo che serenamente si accinge a punire Marsia.
In Giordano (foto 7)anche se drammaticamente simile la scena e imperniata sulla verticale, dove la torsione del corpo di Marsia è accentuata dal piede – leggiadramente calzato con sandaletti azzurri – di Apollo che fa perno sul corpo del satiro.
Nell’opera di Lucrezia e Tarquinio (1663) si rappresenta il preludio del fatto che è raffigurato in un quadro posteriore, attribuito a Giordano (o a un suo allievo), cioè il suicidio di Lucrezia. La scena è un fermo immagine con l’adescamento violento di Tarquinio verso Lucrezia che inorridita, come la servetta che guarda, resta immobile. In questo caso i colori superano i cromatismi scuri caravaggeschi e tutto è esaltato dalla luminescenza delle carni della donna che attraverso un caldo cromatismo, nell’orrore, eccitano la sensualità della scena.
Le eroine, allora, servivano anche a questo: costruire scene erotiche scambiandole per edificanti rappresentazioni storiche.
La peste
Carica di suggestioni, per gli artisti sopravvissuti, diventa a Napoli lo scoppio della peste nel 1656, che dimezza la popolazione e decima anche committenti, artisti e manodopera delle botteghe. La devozione si fa fervente e diventa occasione per grandi opere che esaltano il sacrificio, la sofferenza e la futura redenzione nei cieli.
Tre le opere più indicative: la grande pala di Luca Giordano (foto 8), San Gennaro che intercede per le vittime della peste (1660-1661) e i due bozzetti per un affresco di Mattia Preti (Foto 6) Intercessione della Vergine con San Gennaro, San Francesco Saverio, Santa Rosalia (1656 -1657).
Nature morte
La pittura di genere che si afferma agli inizi del Seicento e affonda le radici nell’arte fiamminga – del Quattrocento – è caratterizzata da minute rappresentazioni di ambienti quotidiani, da un’analitica ricerca di oggetti che arredano la scena pittorica, da un gusto per le immagini di feste o di vita contadina.
La natura morta, che fa parte della pittura di genere, diventa di gran moda tra le classi agiate, anche non nobili, che avrebbero potuto collocarla facilmente – anche per il piccolo formato – nelle loro case.
Anche se considerata un genere minore, divenne tra i Seicento e il Settecento così importante che diversi pittori vi si dedicarono sia in modo esclusivo sia tra le opere da offrire come bottega al nuovo e fiorente mercato dell’arte.Se in un primo tempo la fedeltà naturalistica si lega alla cultura tardo manieristica, l’evoluzione è tutta nel ricercare stupore e meraviglia con fantasiose composizioni che occupano l’intera superficie pittorica, mescolando fiori, frutta, oggetti, animali.
In mostra si trovano deliziosi esempi, di grande maestria, degni delle più blasonate scene religiose e devozionali come le Ipomee (1680-1690) di Andrea Belvedere e la Natura morta con fiori e frutta di Giuseppe Recco (1671).
Grand Tour
La pittura di paesaggio caratterizza lo sguardo e la venuta degli stranieri in Italia nel Seicento. La meta di Napoli, prima dell’avventura nelle terre di Sicilia, diventa l’occasione per vedere le nuove scoperte archeologiche di Pompei, Ercolano e Paestum. Il Golfo, le isole, l’entroterra diventano i soggetti del vedutismo napoletano. D’altronde è Napoli la rappresentazione poetica del sublime, con i chiari di luna su mare, le feste danzanti e le eruzioni vulcaniche – il Vesuvio sarà attivo per un ventennio. I benestanti e nobili giovani europei si lasciano facilmente incantare dal desiderio di vita e dall’aspirazione intellettuale di queste terre. In mostra Pierre-Jacques Volaire, Notturno napoletano con tarantella in riva al mare (1784).Mostra da vedere e apprezzare cogliendo i vari spunti e connessioni che le opere sanno dare sia agli appassionati sia ai curiosi.
Raccomandiamo una visitina al parco, per acquietarsi dopo tanta bellezza. Aggiungiamo come idea da replicare anche in altre mostre l’iniziativa preparata in occasione dell’inaugurazione, il Liceo Musicale “Margherita di Savoia” ha proposto un programma di musiche del Seicento, legando come si dovrebbe fare sempre per inquadrare un periodo storico, le arti che lo caratterizzano e il Seicento è sicuramente il secolo della musica oltre che della pittura trionfante.