Igor Fëdorovič Stravinskij (Oranienbaum, Pietroburgo 17 giugno 1882 – New York, 6 aprile 1971)
A 140 anni dalla nascita
“Mavra”
Opera buffa in un atto su libretto di Boris Kochno, dal poema “La casetta a Kolomna” di Aleksandr Puŝkin. Prima rappresentazione: Parigi, Opèra, 3 giugno 1922.
Quando Mavra andò in scena a Parigi nel 1922 il pubblico parigino sapeva ormai chi fosse il rivoluzionario musicista russo, e che cosa si dovesse attendere di “scandaloso” dalla sua fertile fantasia di inventore musicale. Ma anche se la “prima” di Mavra non suscitò le clamorose reazioni della Sagra della Primavera (passata alla storia, oltre che per il suo valore musicale, per aver dato luogo ad una delle più accesi bagarre teatrali) Stravinskij apparve ancora una volta un musicista di indole provocatoria, quasi un insolente guastafeste. Egli stesso, nelle sue memorie, scrisse che l’operina (allestita insieme con Renard del celebre Diaghilev), “fu considerata come uno sconcertante scherzo”, oltre che “vero e proprio smacco” per lui che invece fu felice – come confessò – di constatare che la realizzazione delle mie idee musicali era perfettamente riuscita “.
Si trattava, in realtà, di un agile “divertissement ” teatrale in cui il musicista russo riproponeva, col coraggio di sempre, una polemica anti ottocentesca, in questo caso rivolta proprio contro i musicisti russi della “scuola nazionale”, per dirla ancora con Stravinskij avevano fatto della fedeltà allo spirito russo un “estetismo dottrinario”. Stravinskij si riferiva in prima di tutto Rimsky-Korsakov, il più sofisticato nella sua “fedeltà al patrimonio musicale della Russia”.
A scandalizzare il pubblico dell’Opéra non fu certamente la trama della farsa, in cui si riconoscevano alcuni degli schemi dell’opera buffa italiana, fatta di travestimenti, di contrasti fra personaggi vecchi e giovani e di colpi di scena: la semplice storia di Parasha (soprano) innamorata dell’ussaro Vasilij (tenore) e alle prese con la propria madre (contralto) e con la pettegola vicina di casa (mezzosprano), avrebbe potuto fare la delizia, come scrisse Alfredo Casella, anche di Rossini e di Donizetti. Non mancavano le piccole oasi sentimentali: le effusioni amorose dei due giovani, anche se in un clima a narrativo distaccato, sempre in bilico tra il serio e il faceto.
Quello che invece scandalizzò, nella Parigi del primo dopoguerra, fu il modo quasi aggressivo con cui la musica creava la comicità delle situazioni, con ammiccamenti, grida, colpi e “suoni osceni” (Casella), che cancellavano il ricordo delle opere buffe del passato e il clima di raffinatezze impressionistiche in cui si trovava immersa la società di allora. Mavra rappresenta, con voce originale uno degli esempi più vivaci nel campo piuttosto arido della comicità musicale novecentesca; anzi, quest’opera è come una brutale testimonianza contro coloro che non credono, nel clima delle ricorrenti angosce del dopoguerra, ad un possibile ritorno alla gioia di ridere. Stravinskij invece coglie il segno, creando fra l’altro una nuova tappa del suo linguaggio musicale. Basta osservare l’organico dell’orchestra formata soltanto da 34 esecutori, per rendersi conto del colore nuovo che al genere comico porta la presenza prevalente degli strumenti a fiato (quattro clarinetti, quattro trombe, due tromboni e un basso tuba, più tre violoncelli e tre contrabbassi): c’è un colore aspro, pungente, una capacità che accentuare sarcasticamente i contrasti che lascia intravedere il controllo lucidissimo di una intelligenza naturalmente ironica e scettica. Emerge anche una affettuosa risata del compositore davanti ai suoi personaggi, guardati con una antica saggezza; si osservi, ad esempio, come l’orchestra reagisce alla frase della Madre: “Dio ci preservi dal rimanere senza servitù”, e come accompagni i duetti d’amore o come si scateni quando la nuova donna di servizio, che non è altro che Vasilij travestito, è sorpresa dalla madre e farsi la barba, con conseguenti svenimenti, fughe e grida di terrore.