Cremona, Teatro Ponchielli, Monteverdi Festival 2022
“IL RITORNO DI ULISSE IN PATRIA”
Tragedia di lieto fine in un prologo e tre atti; poesia di Giacomo Badoaro
Musica di Claudio Monteverdi
Edizione critica a cura di Bernardo Ticci
Ulisse MAURO BORGIONI
Telemaco ANICIO ZORZI GIUSTINIANI
Penelope DELPHINE GALOU
Iro BRUNO TADDIA
Il Tempo/Antinoo ROBERTO LORENZI
Giunone RAFFAELLA MILANESI
La Fortuna VITTORIA MAGNARELLO
Giove GIANLUCA MARGHERI
Nettuno FEDERICO DOMENICO ERALDO SACCHI
Minerva GIUSEPPINA BRIDELLI
Amore PAOLA VALENTINA MOLINARI
Anfinomo FRANCISCO FERNANDEZ RUEDA
Pisandro ENRICO TORRE
Melanto/L’humana Fragilità GAIA PETRONE
Eurimaco ALESSIO TOSI
Eumete LUIGI MORASSI
Ericlea ANNA BESSI
Orchestra Accademia Bizantina
Direttore Ottavio Dantone
regia, scene, luci e video Luigi De Angelis
costumi e drammaturgia Chiara Lagani
progetto Fanny & Alexander
Nuovo allestimento della Fondazione Teatro Ponchielli, Cremona
Cremona, 17 giugno 2022
Dopo diciotto anni torna al Monteverdi Festival di Cremona “Il ritorno di Ulisse in Patria”, un’attesa decisamente troppo lunga, considerata la posizione capitale che il melodramma occupa nella produzione monteverdiana. La sua ripresa porta la firma musicale di Ottavio Dantone, uno dei padri della baroque renaissance, e una garanzia nell’ambito della concertazione – oltre che della selezione filologica, affidata a Bernardo Ticci. Mai come in quest’opera si può notare l’effettivo sdoppiamento del direttore, tra clavicembalo e bacchetta: il Dantone strumentista è frenetico, talvolta spigoloso, sospinge le voci e non ne viene sospinto, mentre il concertatore è arioso, attento a valorizzare ogni singolo suono dell’Accademia Bizantina, ma al contempo alla ricerca di maestosità, di atmosfere dall’ampio respiro. I risultati dell’ensemble sono suggestivi, ricchi e intensi, tanto quanto l’accompagnamento al cembalo è incalzante, sottilmente teso, stemperato unicamente dalla tiorba/chitarra e dall’organo, altri grandi protagonisti strumentali del recitato monteverdiano. Le voci che si uniscono a questa talentuosa formazione musicale sono per lo più di grande spessore e intelligenza musicale: ancora una volta brilla al Ponchielli la stella di Mauro Borgioni, baritono specializzato nel repertorio monteverdiano, dall’indiscutibile appeal scenico e dalle chiare doti canore; al suo Ulisse pertiene una bella linea di canto, di assoluta compostezza, caratterizzata anche dalla pulizia del suono e dalla dizione precisa, che gli consente grande espressività. Parimenti si conferma l’alta caratura di Giuseppina Bridelli, una Minerva tecnicamente pressoché ineccepibile, forse solo un po’ algida nel fraseggio, ma certamente brillante nello sfoggiare la sua omogena vocalità, brillante in acuto, tonda e pastosa nei centri. Prova riuscita anche per Gaia Petrone (l’Humana Fragilità e l’ancella Melanto) dalla tessitura contraltile per nulla semplice: la cantante ha mostrato grande disinvoltura, soprattutto come Melanto, dove ha brillato per la naturalezza nelle agilità e negli abbellimenti. Pienamente all’altezza del ruolo anche Anicio Zorzi Giustiniani (un nobile Telemaco, vocalmente autorevole), Roberto Lorenzi (nel doppio ruolo del Tempo e di Antinoo, ma più in evidenza nel secondo, che ne soddisfa anche le naturali inclinazioni attoriali e di abile fraseggiatore), Francisco Fernandez Rueda ed Enrico Torre (Anfinomo e Pisandro, che formano con Lorenzi riusciti terzetti di indiscutibile affascinante mélange); si fanno apprezzare anche le vocalità di Gianluca Margheri e Federico Domenico Eraldo Sacchi (Giove e Nettuno), il giovane baritenore Luigi Morassi (voce di singolare smalto e gradevole fraseggio) e il mezzosoprano Anna Bessi (accorata Ericlea, vocalità pulita di bel colore e buon trasporto espressivo). Si distingue anche l’Iro di Bruno Taddia, che la regia trasforma da ubriacone a disabile autistico: il baritono pavese entra pienamente nel personaggio, con grande consapevolezza del proprio range vocale. Sul piano della correttezza le prove di Vittoria Magnarello (Fortuna) e Paola Valentina Molinari (Amore). Non ci è parsa invece in serata Raffaella Milanesi nel ruolo di Giunone, a causa di una linea di canto non sempre perfettamente a fuoco. Alterno Alessio Tosi (Eurimaco), un po’ sopra le righe per un’estenuata caratterizzazione espressiva, quasi caricaturale; fortunatemente si riesce anche ad apprezzare, qua e la, il bel colore tenorile e l’aderenza stilistica al canto barocco. L’impostazione complessiva però non convince tecnicamente. Infine, Delphine Galou, una Penelope scenicamente coinvolta e dolente, altera, nobile nei gesti, bellissima nelle fattezze, ma vocalmente discontinua: i limiti di estensione e di corpo non sono compensati dal fraseggio, che sembra sempre abbozzato e mai accortamente cesellato, tendente a “spegnersi” nei momenti più complessi e articolati. L’impegno profuso nella resa attoriale, comunque, le assicura la presa sul pubblico che, alla fine, mostra di apprezzarla con calorosi applausi. La compagine creativa di questo “Ulisse”, invece, non riesce a essere tanto convincente quanto la numerosa compagnia di canto: Fanny & Alexander, infatti, ormai storica compagnia teatrale ravennate, cerca di giocare in questa produzione le sue solite carte – fusione tra scena e platea, tra teatro e cinema, usando pochi elementi altamente simbolizzati – ma è una vena ormai esaurita, e si ripropongono stancamente stilemi che, con una regia più consapevole, avrebbero potuto rendere meglio. De facto, la regia di Luigi de Angelis non c’è, men che meno la drammaturgia di Chiara Lagani: ci sono una serie di trovate registiche disorganizzate, alcune molto suggestive, altre di gusto francamente arbitrario, che non confluiscono in un progetto comune, né estetico né narrativo. Quindi bello l’inizio con Ulisse abbandonato nel Po in secca, belle le proiezioni durante la prima scena degli dei, francamente banali quelle di fiori e api nelle scene di tentata seduzione, inspiegabile quella di una giostra all’inizio della seconda parte; godibili i Proci che sparano al poligono come dei boss della camorra, incomprensibile la ragione per cui il palazzo di Penelope debba essere un poligono di tiro, tanto quanto le immagini disegnate sui bersagli; simpatici gli dei vestiti di lustrini, stucchevole Minerva-Frida Kahlo, ridicola Melanto in scamiciato fiorato povero-ma-bello, grotteschi Eurimaco che si sventola con ventagli multicolori e Telemaco in calzoncini corti e calzettoni, banali i bersagli disegnati sulle magliette dei Proci; coraggiosa e riuscita, come già detto, l’interpretazione di Iro come un disabile autistico, mentre cerebrale e fintamente infantile la stampa degli animali sulle magliette di Eumete e Iro, come la scena del primo atto, che vorrebbe ricreare una fattoria da illustrazione di libro per ragazzi, anch’essa coperta di bersagli. Del tutto abbandonato a se stesso il Prologo, cantato dalla platea dai quattro cantanti in generico nero da concerto, simpatico il gioco col filo fra Melanto ed Eurimaco nel duetto della scena seconda del primo atto (“Duri e penosi”). Può questa congerie di scenette e proiezioni chiamarsi drammaturgia? Possono le interpretazioni curate di pochi personaggi (Penelope, Iro, Ericlea, Giove) bastare a creare una regia in cui interagiscono diciannove ruoli? Può essere questa la giusta chiave di lettura del capolavoro monteverdiano, a diciotto anni dalla sua ultima comparsa al Festival? Si replica il 24/06, sempre al Ponchielli.