Dramma giocoso per musica in due atti di Marco Coltellini da Carlo Goldoni. Prima rappresentazione: Salisburgo, Palazzo Arcivescovile, 1 maggio 1769.
Il libretto di Goldoni-Coltellini è un meccanismo teatrale molto abile, che non manca di accogliere dei finale datto piuttosto sviluppati. La partitura si articola così in tre atti e comprende un’ouverture e ventisei numeri musicali, di cui undici nel primo atto, dieci nel secondo e cinque nel terzo. Si tratta complessivamente di ventuno arie, un quartetto iniziale (detto “coro”), un duetto e tre finali; Prevale dunque l’idea di opera come una successione di arie solistiche.Occorre comprendere tuttavia come, per il piccolo Mozart, il compito di mettere in musica un libretto buffo fosse assai diverso rispetto a quello di mettere musica libretti edificanti come quelli salisburghesi. L’opera buffa, infatti, accoglieva al proprio interno anche dei finali d’atto consistenti nella successione di diverse sezioni musicali, finali, ai quali spettavo anche la funzione non solo di fissare un “affetto”, un “sentimento”, ma anche quello di far progredire l’azione. Dunque, differenza degli insiemi di Schuldigkeit e di Apollo et Hyacinthus, i finali della Finta semplice non presentano solo un carattere contemplativo ma anche un carattere dinamico.
Si aggiunga che i cantanti a cui erano destinate le opere buffe non erano dei veri virtuosi, ma piuttosto dei cantanti-attori, il cui canto doveva avere una funzione comunicativa ed espressiva più marcata. Ecco dunque che la forma delle arie dell’opera buffa seguiva solo raramente lo schema dell‘aria con da capo, e preferiva invece una forma con due temi principali (il primo più breve, il secondo spesso più incisivo e “parlante”), esposti due volte, secondo uno schema bipartito.Le arie della Finta semplice rispondono per la maggior parte a questo schema: mentre altre quattro sono in una forma di Lied o “cavatina”, con un’idea principale ripresa a diverse altezze. Ovviamente Mozart cercò di aiutarsi, nel compito impervio di scrivere un’opera in tre atti, recuperando pagine preesistenti che si prestassero a tale utilizzo. Come Ouverture venne sfruttata la Sinfonia in re maggiore k.45, risalente a qualche mese prima, con l’eliminazione del Minuetto e l’alleggerimento dell’orchestrazione (via trombe e timpani, dentro flauti e Fagotti). Inoltre un’aria, che nella Schuldigkeit era intonata dello Spirito Cristiano (“Manches Übel will zuweilen), venne affidata al personaggio di Polidoro divenendo “Cosa ha mai la donna”. Proprio questo spostamento indica come Mozart cercasse, nelle singole arie, soprattutto di creare un “affetto” idoneo al testo poetico. Non mancano così, nelle arie della Finta semplice questi stilemi espressivi propri dell’opera buffa, come il sillabato stretto per i personaggi buffi e la ripetizione comica delle frasi.
Ma vi sono anche pagine di carattere lirico ricche di freschezza e di eleganza. Almeno nel caso della protagonista Rosina, Mozart scrive delle arie che donano una precisa caratterizzazione del personaggio, con una vocalità di garbato virtuosismo e di maliziosa espressività. È il caso dell’aria “Con la bocca e non col core”, con cui il personaggio si presenta; o anche dell’aria “Senti l’eco”, in cui l’oboe concertante traduce in musica L’eco del testo poetico, intrecciandosi a imitando le linee della cantante: e l’invenzione musicale riscatta il carattere ingenuo del procedimento.
Anche i pezzi di insieme sono assai diversi rispetto a quelli dei due precedenti lavori teatrali, l’avvicendamento delle voci dei vari personaggi rende questi numeri di contenuto dinamico piuttosto che statico. Ancora più interessanti appaiono poi i tre finali d’atto, dove il piccolo Mozart crea delle sezioni fra loro concatenate e si mostra capace di alternare situazione contrastanti, di creare, insomma, una vera drammaturgia musicale dinamica e coinvolgente. Nell’insieme, La Finta semplice mostra sento senza dubbio le ingenuità e le disomogeneità di un autore dodicenne, ma costituisce un modello di opera buffa certamente vitale e accattivante nel panorama dell’epoca. Non c’è bisogno insomma di cercarvi le premonizioni delle grandi opere buffe viennesi per apprezzarne l’ingegno e la freschezza.