Napoli, Teatro Bellini: “Hands do not touch your precious Me”

Napoli, Teatro Bellini, Stagione 2021/22
HANDS DO NOT TOUCH YOUR PRECIOUS ME
Spettacolo di Wim Vandekeybus, Ultima Vez
Drammaturgia di Erwin Jans
Inanna LIEVE MEEUSSEN
Ereshkigal OLIVIER DE SAGAZAN
Re Enki WIM VANDEKEYBUS
I Me MARIA KOLEGOVA, MUFUTAU YUSUF, BORNA BABIĆ, MAUREEN BATOR, DAVIDE BELOTTI, PIETER DESMET, ANNA KARENINA LAMBRECHTS
Regia, Coreografia, Camera live Wim Vandekeybus
Musiche Charo Calvo
Musiche aggiunte Norbert Pflanzer, Jeroen Van Herzeele
Suono e live video Schröder
Costumi Isabelle Lhoas
Accessori Cèline de Schepper
Luci Wim Vandekeybus, Thomas Glorieux
Creazione artista con l’argilla Olivier de Sagazan
Produzione Ultima Vez coproduzione KVS Brussel, Teatro Comunale di Ferrara
Napoli, 5 maggio 2022
Ciò che abbiamo veduto al Bellini non è soltanto danza contemporanea. Sarebbe comodo, e riduttivo, liquidarla in questo modo. Ciò che abbiamo veduto è, invece, un’ “Opera d’Arte totale”. Non quella vagheggiata da Wagner, ovviamente. Ma, questa locuzione c’occorre per raccontarvi Hands do not touch your precious Me, opera d’arte teatrica, e non teatrale (c’arriveremo tra un po’), del coreografo, danzatore e regista Wim Vandekeybus, e della sua compagnia, Ultima Vez. L’evento teatrico è ispirato alle storie della mitologica e sumera figura della dea Inanna e del suo viaggio negli Inferi – ove incontra Ereshkigal, suo mostruoso alter ego e sorella, rappresentazione antropomorfica ed oscura dell’inconscio della dea. Qui, il Re degli Inferi, Enki, svende, poi, alla dea i suoi Me, poteri e doni della civilizzazione – rappresentati, metaforicamente, da sette danzatori: Maria Kolegova, Mufutau Yusuf, Borna Babić, Maureen Bator, Davide Belotti, Pieter Desmet, Anna Karenina Lambrechts. I tre, invece (Inanna, Ereshkigal ed Enki), sono personificati, rispettivamente, da altri tre danzatori-artisti: Lieve Meeussen, il performer Olivier de Sagazan e Vandekeybus, coreografo-regista. Svenduti, infatti, i suoi Me, Enki riceve una telecamera attraverso cui Vandekeybus-Enki proietta, sopra un fondo legnoso, immagini e frammenti delle performance. Linguaggio cinematografico, dunque, che s’accoppia a quello coreografico e performativo. Ecco perché l’evento c’appare teatrico, e non teatrale: non soltanto perché zona astratta di multidisciplinarietà… ma, anche perché, manca la parola – manifestatasi, però, attraverso la danza. La sua potenza semantica s’esplica attraverso una raffinata drammaturgia-sceneggiatura – quella di Erwin Jans e Vandekeybus –, tanto somigliante ad un “Balletto d’azione”: ibridismo d’un linguaggio coreografico, scisso tra brillanti e variegati fenomeni coreutici, provenienti dalla Danza Africana e da quella Contemporanea, e da figure ed immagini apparentemente improvvisate – intrise, dunque, d’una estrema veemenza e varietà d’espressione. La recitazione dei danzatori-attori c’appare tutta fremente, isterizzata – frazionata tra un lavorìo d’ “ostruzione” e boicottaggio dei movimenti e dei gesti, d’autosabotaggio, ed una estremizzazione dei movimenti, tutti segmentati, potentemente geometrizzati, irregolari, asfissianti.Sopra tutto e tutti, lui-lei, principe dell’inorganicità e dea degli Inferi: Olivier de Sagazan, pittore e scultore. Senza sesso. O, meglio, ne ha più d’uno. Infila la sua testa in un montarozzo d’informe argilla e stoppa tutta sfibrata e giallognola. Un monticello di fanghiglia compatta che, idealmente, c’appare come un ammasso di carne molliccia. E Olivier l’adopera tutta… o, meglio, si lascia adoperare da essa. Farsi carne molliccia – svanire in essa, divenendo, così, “altro”: ecco cosa ottiene confondendo se stesso coll’inorganico. Il disfacimento del volto, il dileguamento del corpo – per dirla con Deleuze – son processi che avvengono quando, sulla sua faccia, egli aggiunge argilla, tutta molle ed umidiccia. Questa testa, la sua – senza più volto, ormai –, prima, c’appare come vaga e confusa… poi, ecco che Olivier (de-soggettivizzato) s’autodetermina e s’impantana in un di-venire senza ritorno, in una perenne reinvenzione del Sé. Questa reinvenzione consiste, cioè, in un costante di-venire “altro”: bestia, maiale, teste antropomorfe – corpi femminili e maschili, argillosi e disossati. Argilla che, dunque, consente a Olivier due cose: la deformazione e la trasformazione del suo corpo. La prima, avviene de-formando – togliendo, cioè, forma originaria al suo corpo; la seconda, avviene attraverso una riorganizzazione strutturale e corporea – facendo, dunque, emergere attraverso l’argilla, lì dov’era una testa, lì dov’era un corpo, altre teste, altri corpi… nuovi occhi, nuove bocche – fatti d’argilla e vernice – senza funzione: segni che, idealmente, posseggono forme antropomorfe, e che rinviano, però, ad altro – o, meglio, a “nulla”. Però, attenzione: la reinvenzione del Sé non è il nichilistico tentativo d’un annientamento e superamento del corpo. Anzi: questo metamorfismo argilloso consente ai danzatori-attori, e al nostro Olivier, non d’eliminare i corpi… ma, d’aggiungerne altri a quelli che già posseggono. E, non si lasciano dominare e demolire da quelle forze deformanti che attraversano i corpi: questo metamorfismo è una potente reazione a queste forze che tentano d’opprimerli e sopprimerli! Corpi che, dunque, sono attraversati da una spaventosa vitalità. Corpi vivificati da luci strazianti e soffuse – quelle di Vandekeybus e Thomas Glorieux –, e da costumi potentemente austeri, quelli di Isabelle Lhoas e Isabelle de Cannière. Ecco perché tutto ciò è “Opera d’Arte totale”: tutti gli elementi concorrono alla sua formazione. Anche la musica, ovviamente; anche la “sinfonia” elettroacustica, quella di Charo Calvo, con integrazioni di Norbert Pflanzer e Jeroen Van Herzeele; “sinfonia” ottenuta attraverso una reiterazione ed una reificazione del suono (curato da Schröder); suono catturato, isolato e sottoposto a costanti variazioni, timbriche e formali. Potremmo parlare, infatti, d’ “immagini sonore”, estremamente evocative, che tendono, però, all’autosabotaggio – a spegnersi, cioè – perché punteggiate da sonorità rarefatte. “Sinfonia” che vivifica anche lo spazio scenico inesistente; ma, negli accessori, curato da Cèline de Schepper. Successo di pubblico, sorprendentemente numeroso, attentoo e partecipe.