Milano, Teatro alla Scala, stagione d’opera e balletto 2021/22
“UN BALLO IN MASCHERA”
Opera in tre atti su libretto di Antonio Somma da “Gustave III, ou Le Bal masqué” di Eugene Scribe
Musica di Giuseppe Verdi
Riccardo FRANCESCO MELI
Renato LUCA SALSI
Amelia SONDRA RADVANOVSKY
Oscar FEDERICA GUIDA
Ulrica YULIA MATOCHKINA
Silvano LIVIU HOLENDER
Samuel SORIN COLIBAN
Tom JONGMING PARK
Un giudice COSTANTINO FINUCCI
Un servo d’Amelia PARIDE CATALDO
Orchestra e coro del Teatro alla Scala di Milano
Direttore Nicola Luisotti
Maestro del coro Alberto Malazzi
Regia, scene e costumi Marco Arturo Marelli
Milano, Teatro alla Scala, 14 maggio 2022
“Un ballo in maschera” torna alla Scala con una nuova produzione giunta felicemente in porto nonostante qualche vicissitudine. Originariamente previsto come direttore Riccardo Chailly l’opera è per poi passata a Nicola Luisotti che ha saputo prendere in mano lo spettacolo con la professionalità che ben gli si riconosce.
Luisotti conosce molto bene il repertorio verdiano e lo affronta con particolare sensibilità. La sua è una direzione molto curata. Sul piano agogico e ritmico si apprezza un bel gioco di contrasti tra i momenti brillanti attraversati da scariche di energia quasi offembachiana – il finale primo – e la a sincerità dell’abbandono melodico dei grandi squarci lirici. I colori orchestrali sono sempre molto belli, cangianti e con un fondo di morbida melanconia che si addice particolarmente a quest’opera. Manca forse quel tocco più personale, quel colpo d’ala in più che separa l’altissimo artigianato musicale dalla pura ispirazione artistica ma resta una prestazione di qualità molto alta cui contribuiscono le sempre ottime prove dell’orchestra scaligera e del coro diretto da Alberto Malazzi probabilmente inarrivabile per qualunque altra compagine nel repertorio verdiano.
La compagnia di canto si muove su un livello decisamente alto. Francesco Meli è forse il miglior Riccardo oggi sulla scena. Voce bellissima, luminosa e soffusa di una fascinosa morbidezza esaltata da un uso magnifico della mezza voce che esalta il carattere aristocratico e raffinato del Conte. La linea è solida e perfettamente omogenea su tutta la linea e supera con la più assoluta naturalezza gli ampi scarti che caratterizzano la parte. Interpretativamente conosce e fa vivere il personaggio come oggi nessun’altro riesce a fare. La sognante dolcezza di “La rivedrò nell’estasi”, l’ironico disincanto con cui affronta “È scherzo od è follia”, l’intensità di “Ma s’è me forza perderti” tutto si fonde alla perfezione in un personaggio che è quello con cui Meli si è più identificato nel corso della propria carriera.Degna Amelia di questo Riccardo è Sondra Radvanovsky. La cantante americana sfoggia una voce di non comune potenza che gli permette di dominare sicura sulle masse orchestrali e corali ma è una potenza perfettamente controllata. La lunga militanza belcantista si apprezza della cura dell’emissione, nel lavoro di cesello vocale ancor più ammirevole considerando l’imponenza del mezzo. La gamma è compatta, omogenea, sempre ricca di suono dagli estremi acuti alle discese nel registro grave di cui la parte è costellata. “Ma dall’arido stelo divulsa” in un’unica frase scarta di due ottave dal Si bemolle al Do grave senza che la Radvanovsky mostri la benché minima incertezza. Sul piano interpretativo i tratti più passionali prevalgono su quelli intimi e sofferti lasciati forse un po’ troppo in ombra.
Luca Salsi è un Renato di “vecchia scuola”. Voce robusta, timbrata, solida, molto sicura su tutta la gamma, un po’ monocorde sul versante espressivo. Il suo Renato non manca certo di autorevolezza e forza ma inutile cercare una maggior nobiltà d’accento, un più sincero abbandono melanconico – anche il magnifico andante “O dolcezze perdute! O memorie!” ha evidenziato questo limite. Una lettura che si richiama a illustri modelli del passato e che non manca di qualità anche se nell’insieme risulta un po’ datata.Yulia Matochkina (Ulrica) è di certo più un mezzosoprano che un autentico contralto. La voce è di buona grana e corre con facilità ma si notano evidenti scollature fra i registri e le discese al grave son forzate. Fa difetto anche il suo italiano che non l’aiuta nella resa del personaggio e la prestazione scorre in un sostanziale anonimato.
Buona linea di canto ma accento un po’ petulante per l’Oscar di Federica Guida. Solidi i materiali vocali di Sorin Coliban (Samuel) e Jongmin Park (Tom), meno quello di Liviu Holender (Silvano). Completano validamente il cast Costantino Finucci (un giudice) e Paride Cataldo (un servo d’Amelia).La parte visiva dello spettacolo è stato affidata a Marco Arturo Marelli autore di regia, scene e costumi. Il regista svizzero rinuncia a un ambiente storico preciso e fa della vicenda una riflessione astratta sull’amore, la morte e l’implacabilità del fato che regge ogni cosa a suo capriccio. Scompare quindi qualunque riferimento ambientale o temporale preciso – anche le bandiere issate durante il finale secondo hanno generici simboli araldici privi di riferimenti puntuali. La scena è una sorta di grande galleria barocca distorta in una dimensione da incubo. Un lungo, oscuro corridoio di sapore baconiano sulle cui pareti schemi decorativi barocchi si frangono e si ricompongono senza logica apparente. Impianto scenico che resta costante in tutta l’opera ma che continuamente si rimodella per definire i vari ambienti e che nel finale lascia spazia alla raffigurazione della sala scaligera che diventa lo scenario del ballo fatale. I costumi hanno lo stesso carattere astratto e fanno convivere modelli e riferimenti compresi tra il XVIII e la prima metà del XX secolo. L’astrazione dell’impianto tradisce però una serie di suggestioni nordiche, una forte ispirazione alla cultura scandinava e ai suoi simboli mentre nulla richiama alla realtà americana. La morte che compare come presenza costante nel corso di tutta l’opera è diretta citazione dell’analoga figura del “Settimo sigillo” di Ingmar Bergman mentre i corvi testimoni e garanti dell’inevitabilità del destino richiamano Huginn e Muninn in due messaggeri di Odino e in fondo la stessa Ulrica più sacerdotessa che strega potrebbe essere posseduta propria dal Dio che per gli antichi nordici era l’ispiratore dei veggenti in quanto conoscitore del futuro.L’impianto è decisamente suggestivo e momenti notevoli non mancano – bellissimi i colori alla Munch nell’inquietante cielo notturno del II atto – e anche per questo ancor più stridono certe cadute di stile. L’idea dei corvi viene riproposta con fin troppa insistenza; i congiurati con le loro divise nere di taglio fascista – tutti gli altri cortigiani hanno abiti chiari – i modi scostanti e Samuel con benda sull’occhio sono fin da subito così loschi da risultare troppo sospetti e le passeggiate del figlio di Amelia con orsetto da compagnia si potevano tranquillamente evitare. Le modifiche al libretto – di cui tanto si è discusso – cambiano poco ma indeboliscono alcuni momenti. Più che la modifica della battura razzista del Primo giudice è dispiaciuta la variante del finale con Riccardo morente che canta “Addio diletta Amelia” anziché “America” annullando il magnifico effetto teatrale previsto da Verdi e Somma. Foto Brescia e Amisano