Milano, 30 aprile 2022
Purtroppo, mi sono recato al MIA fair di Milano giovedì 28 aprile (qui la recensione), e non sono riuscito ad incontrare Davide Musto, fotografo “di moda”, che è presente in fiera con la sua esposizione Nuovo Cinema Paradiso. È venuto a Milano, da Roma, dove vive e lavora, il giorno successivo. Mi ha però concesso un’intervista telefonica per comprendere meglio la dimensione del suo lavoro.
Quando hai cominciato a fotografare? Che cos’è la fotografia per te?
Ci sono state due fasi. La prima è stata molto “hobbistica”, ed è iniziata ufficialmente nel 2006. Abitavo a Parigi, e una mia amica fotografa mi ha fatto fare uno scatto con una macchina fotografica, e da quel click non mi sono più fermato. Ovviamente ho sempre avuto una grossa passione per la fotografia, e per l’immagine in generale. Sono poi tornato in Italia, ho comprato la mia prima reflex, e ho fatto le mie prime sperimentazioni, che erano soprattutto sull’architettura, e sui dettagli delle statue rinascimentali di Firenze (all’epoca vivevo lì). Fino a quando un direttore di giornale illuminato, uno dei pochi, Calascibetta di Style Magazine, mi chiamò per fare il primo editoriale di moda, in maniera professionale. Da lì, senza pensarci troppo, è partita la carriera in maniera ufficiale. E sono autodidatta al cento per cento, non ho mai fatto scuole!
Riguardo alla tua mostra Nuovo cinema paradiso nell’ambito del MIA, in cui le tue fotografie si presentano come mezzo di scouting… in che modo, per te, sono mezzo di scouting?
Anche qui ci sono vari elementi. Il primo: io sono un grandissimo appassionato di cinema, quindi adoro tutto ciò che è cinematografico! Quindi non soltanto il cinema di per sé, ma anche tutto ciò che può essere cinematografico: una casa, un arredo, un angolo di una strada, tutto per me deve avere uno storytelling. Questo concetto di cui mi chiedi è arrivato quando, dopo il percorso che ti ho raccontato, dopo un anno o due, non riuscivo a trovare la mia dimensione a livello fotografico, perché, abitando a Roma, non avevo la possibilità di scattare la moda come piaceva a me, essendo la moda basata maggiormente a Milano; in più, il cinema, soprattutto con gli attori un po’ più adulti o affermati, non mi permetteva di fare la fotografia che piace fare a me… fino a quando ho avuto l’opportunità di scattare con due giovanissimi attori che si chiamano Saul Nanni e Federico Russo, per la rivista Man in town: ho avuto qui l’idea del giovane attore, che poteva vestire la moda e poteva interpretarla, e quindi mi dava in qualche modo l’opportunità di includere in un solo scatto le mie due più grandi passioni, la fotografia di moda – ovviamente dal mio punto di vista – e il talent cinematografico. Penso che la svolta nello scouting sia avvenuta quando ho scattato con Rocco Fasano, che all’epoca era ancora un modello, faceva pubblicità o piccolissimi ruoli, e di lì a poco fu preso per Skam Italia, e ha avuto il successo che ha tutt’oggi. Questo qualcosa che io chiamo scouting non lo cerco soltanto nell’attore che in qualche modo recita già, ma anche nei modelli per gli shooting: a me la faccia convenzionale, o la faccia “che va di moda”, non è mai interessata, per me devi avere qualcosa quando mi guardi attraverso la macchina fotografica, devi esprimere… una poesia cinematografica. Non scattando le fotografie di moda un po’, come dire, “milanesi” (ride), una fotografia di moda ben precisa che non mi trova assolutamente partecipe… invece il mio è più forse più… anni ‘90, ed è più legato allo storytelling.
Mi parli di storytelling… quindi tu, quanto cerchi un modello o una modella, assegni loro una sorta di canovaccio, e questo fa sì che tu stia scattando come da una scena di un film?
Esatto, questo è proprio il ruolo che mi sono fissato come fotografo. Il mio lavoro è legato ad una sorta di sceneggiatura che ho nella mia testa e che cerco di trasferire al modello. Quando scatto con un modello o attore tendo sempre a conoscerlo prima di scattare, che sia banalmente una telefonata o WhatsApp, ma non mi piace arrivare sul set avendo davanti uno “sconosciuto totale”. Anche se è capitato, e in questi casi abbiamo improvvisato, ma l’improvvisazione è anch’essa un metodo attoriale che ha funzionato anche a livello fotografico.
Mentre la fotografia di moda che tu hai definito un po’ più “milanese”, che cosa non ha?
Non mi emoziona. Perché più orientata alla moda del momento. Non c’è neanche posing. La trovo tutta uguale, ci sono tanti fotografi che fanno tutti la stessa cosa. Come se fosse una ricerca di quello che va di moda, e quindi dà poi sicurezza sul lavoro. Chi fa un lavoro come il mio, o chi è all’interno di una struttura che deve “raccontare qualcosa”… deve assumersi dei rischi. Il rischio è quello di non essere nel gruppo cool (risata).
Quindi, questo tuo modo di lavorare, ti permette di superare il rischio in cui si incorre quando la fotografia diventa un lavoro?
Ti dico la verità? Anche io faccio dei lavori commissionati o commerciali in cui c’è tanto di chi commissiona. Però ho la fortuna di essere riconosciuto come un fotografo che scatta un certo tipo di fotografia, e quindi quando vengo chiamato cerco di mettere insieme le due cose. Dove invece il lavoro nasce completamente da me ci sono io al cento per cento e ho l’ultima parola su tutto, sul trucco, sullo styling, su tutto ciò che serve per raccontare la storia. Cerco sempre di mantenere il controllo della direzione creativa di tutto il lavoro, laddove posso, ovviamente.
Quindi, se ti chiedessi quando una modella o un modello è brava o bravo nello scattare, tu cosa mi risponderesti?
Quando ha qualcosa dentro, che però si vede fuori. Nello sguardo, soprattutto. Di bei ragazzi e belle ragazze ce ne sono, soprattutto a Milano, tantissimi. Diventi un modello quando sei qualcuno che sa raccontare quello che ha dentro, anche indossando un vestito, e non sei solo una ragazza o un ragazzo che grazie al suo fisico può indossare qualsiasi cosa. Dovresti essere in grado, paradossalmente, di raccontare quello che aveva in mente il brand quando ha disegnato quel capo. E questo succede solo se hai qualcosa dentro. Se non sei uno dei tanti.
Mi hai anticipato! Perché stavo infatti pensando che, tempo fa, un ragazzo su Instagram ha postato una foto in mutande scrivendo: “vorrei che questa foto potesse avere una qualche metafora filosofica, ma in realtà è solo una foto in mutande”. Cosa fa la fotografia d’arte in questo frangente?
Assolutamente è così. Ripeto, devi avere qualcosa dentro. Se la vuoi postare, se la vuoi scattare, o se vuoi posare in quel modo è perché senti di dover raccontare una parte di te che viene fuori. Oggi, molto spesso, questo meccanismo è un po’ un “acchiappa-like”, e lo trovo un modo becero di stare sul mercato. Io all’interno di Man in town sto curando una rubrica che purtroppo riesco ad alimentare poco e si chiama Uncensored Bodies, maschile soprattutto… Oggi purtroppo la fotografia ha un valore veramente spesso molto basso, perché si cerca di fare un po’ l’acchiappa-like, e quando c’è l’acchiappa-like si cerca un consenso, e quando lo cerchi non stai rischiando niente.
Tornando un po’ alla tua mostra al MIA, come ti è sembrata questa edizione della fiera?
Io ci sono stato ieri mattina, e non c’era molta gente. Mi dispiace, perché in Italia non c’è un grande avvicinamento della gente alla fotografia. Milano, credo, cerca maggiormente di raccontarla attraverso varie manifestazioni, come anche il Photo Vogue Festival che si tiene a novembre. È stato comunque bello girare all’interno dei MIA e vedere esposta, ad esempio, Letizia Battaglia, che purtroppo ci ha lasciato da poco. È piacevole trovare accanto a te molti tuoi riferimenti artistici. Ti dici: allora qualche cosa hai davvero raccontato! A prescindere da a chi sia arrivato e a quante persone. Da un punto di vista personale è stata perciò una bella sensazione. Ho visto però pochissima gente, e questo mi dispiace molto, per la fotografia!
E a proposito della fotografia in Italia, mi è venuta in mente quella frase che Scalfari pare abbia detto quando fondò Repubblica: “due cose in questo giornale non ci saranno mai, le fotografie e lo sport”. Questa frase non è molto rappresentativa della situazione italiana riguardo allo sport, ma della fotografia lo è?
In Italia non c’è una grande attenzione per la fotografia, in nessuno dei campi in cui viene utilizzata. Dovrebbe essere rispettata un po’ di più; dovrebbe essere ricercata un po’ di più; e dovrebbe essere selezionata un po’ di più. C’è troppa gente che oggi si definisce fotografo, ma fare il fotografo è un mestiere. Non è solo saper dosare le luci e fare due click. Bastano tre lezioni e acquisisci lo strumento. Diventare un fotografo è qualcosa che devi avere dentro. Dico sempre: io non faccio il fotografo, io sono un fotografo. Quando sei un fotografo non hai più solo due occhi, ma tre. Hai sempre l’obiettivo in mezzo. Guardi sempre tutto quello che hai davanti a livello fotografico, tutto dal tuo punto di vista (chiaramente!), e nel mio caso “cinematografico”, come ti dicevo prima. Quindi dico con tanto dispiacere che in Italia non c’è molto rispetto per la fotografia e per i fotografi, sia nell’editoria che nel commerciale.