Verona, Teatro Filarmonico: Pietro Rizzo & Fedor Rudin in concerto

Verona, Teatro Filarmonico, Stagione Sinfonica 2022.
Orchestra della Fondazione Arena di Verona
Direttore Pietro Rizzo
Violino Fedor Rudin
Nicolò Paganini:“Concerto n. 1 in mi bemolle maggiore per violino e orchestra op. 6”; Ludwig van Beethoven: Sinfonia n. 4 in in si bemolle maggiore op. 60

Verona, 22 aprile 2022
Il Concerto n. 1 di Paganini è stato eseguito più volte a Verona, anche con interpreti di chiara fama (nel 1985 fu Ruggero Ricci a suonarlo) ma sempre nell’usuale tonalità di re maggiore, assai più comoda tecnicamente e più brillante all’ascolto, tonalità universalmente adottata dalla stragrande maggioranza dei violinisti. Ebbene per la prima volta al Filarmonico è stata eseguita la versione originale, in mi bemolle maggiore, che prevede una certa scordatura dell’impianto strumentale a vantaggio di un suono più dolce e morbido. Un concerto particolare, il più eseguito dei sei scritti dal genovese “infernaldivino”, brano d’obbligo al concorso internazionale omonimo, fu scritto tra il 1818 e il 1820 da un Paganini ispirato soprattutto dall’imperante gusto popolare per l’opera lirica; lo si evince facilmente dal ridondante solismo dello strumento al quale sono riservati cantabilità e virtuosismo pirotecnico mentre l’orchestra si limita ad un mero accompagnamento, assecondandone le velleità. Dal canto suo, quest’ultima per espressa volontà del compositore si presenta particolarmente ricca nell’organico, con l’aggiunta di trombone, grancassa e piatti. Il richiamo dell’accordo iniziale alla sinfonia del “Barbiere” rossiniano (che tra prestiti e trasmigrazioni da un’opera all’altra era stata scritta cinque anni prima) è lapalissiano e, considerando il narcisismo di Paganini, non è difficile pensare che servisse a zittire il pubblico in sala: anche l’ampia introduzione orchestrale aveva la funzione di esasperare l’attesa del solista la cui entrata diventava quasi una liberazione. Il lirismo dell’Adagio e la limpidezza del brillante Rondò ci riportano ancora una volta al mondo dell’opera e alla magia del teatro, come l’improvviso silenzio nel finale del concerto che prepara la coda in un’ideale calata di sipario. Protagonista è stato il violino (un Lorenzo Storioni del 1779) animato da un magnifico Fedor Rudin, trentenne franco-russo già primo violino dei gloriosi Wiener Philarmoniker, che ha messo in mostra una sicurezza spavalda sia nei passaggi virtuosistici quanto in quelli toccati da vibrante cantabilità (e a dispetto di un Paganini considerato un puro funambolo ce n’è davvero tanta); con superbo magistero tecnico ha poi affrontato l’ampia ed articolata cadenza, croce e delizia di tutti i violinisti. Lo stesso Rudin ha poi offerto al pubblico entusiasta un bis bachiano con il Largo dalla Sonata n. 2 in la minore per violino solo, particolarmente difficile per il noto canto a due voci. La seconda parte offriva all’ascolto la Sinfonia n. 4 in si bemolle maggiore op. 60 di Beethoven, un lavoro sul quale la letteratura romantica ha versato fiumi di inchiostro. Collocata tra due colossi del fiero sinfonismo beethoveniano quali l’Eroica e la Quinta questa sinfonia, nella sua grazia melodica e strumentale venne paragonata da Robert Schumann, ad “una snella fanciulla greca tra due giganti nordici”. Dopo l’esperienza forte dell’Eroica, Beethoven segna qui un ritorno al modello classico già visto nella Seconda sinfonia ma a differenza di questa la brillante vivacità è qui lubrificata da una vena di toccante romanticismo che la pone in un ideale equilibrio tra il vecchio ed il nuovo Beethoven. Alla guida dell’Orchestra della Fondazione Arena, ancora una volta ottima nelle due prestazioni, debuttava il romano Pietro Rizzo che con saldo mestiere ha saputo accompagnare in modo impeccabile il funambolico estro paganiniano assecondando le declamazioni del solista, ma anche mettere in luce tutte le velleità della sinfonia beethoveniana, senza mai esagerare nella sua lettura. Un’esecuzione corretta, nella più pura tradizione consegnataci dai padri del podio e dalla sterminata discografia, che non ha tuttavia mancato di ostentare qualche bagliore strumentale ma soprattutto un buon suono degli archi e calibrati equilibri con la sezione dei fiati. Pubblico abbastanza numeroso, pur mancando ancora una volta l’esaurito in sala, ma nuovamente gratificato dalla presenza di giovanissimi; un segno di speranza e di progressiva ripresa dopo un lungo periodo di incertezza e sofferenza culturale. Foto Ennevi per Fondazione Arena