Venezia, Teatro La Fenice: “Faust”

Venezia, Teatro La Fenice, Lirica e Balletto, Stagione 2021-2022
“FAUST”
Dramma lirico in cinque atti, Libretto di Jules Barbier e Michel Carré, dal poema omonimo di Johann Wolfgang von Goethe
Musica Charles Gounod
Doctor Faust IVAN AYON RIVAS
Méphistophélès ALEX ESPOSITO
Valentin ARMANDO NOGUERA
Marguerite CARMELA REMIGIO
Wagner WILLIAM CORRÒ
Siébel PAOLA GARDINA
Marthe Schwertlein JULIE MELLOR
Orchestra e Coro del Teatro La Fenice
Direttore Frédéric Chaslin
Maestro del Coro Alfonso Caiani
Regia Joan Anton Rechi
Scene Sebastian Ellrich
Costumi Gabriela Salaverri
Light designer Alberto Rodriguez Vega
Nuovo allestimento Fondazione Teatro La Fenice in coproduzione con Teatro Comunale di Bologna
Venezia, 22 aprile 2022
Un Faust hollywoodiano e felliniano si può definire quello proposto da Joan Anton Rechi, considerando il secondo allestimento da lui ideato per la Fenice: il primo era andato in scena nel giugno del 2021, nella situazione straordinaria determinata dalla pandemia, che aveva imposto un diverso e innovativo utilizzo degli spazi teatrali, con l’azione scenica che si svolgeva, in buona parte, anche in una platea priva di spettatori. Recuperata normalità, ora Faust è concepito per il solo palcoscenico. Per quanto riguarda il trattamento delle scene, ci sono molti punti in comune con l’allestimento realizzato in estate, ma lo spettacolo è completamente diverso dal precedente – più austero – fondandosi sulla magia del cinema.Individuando nel tema dell’eterna giovinezza il punto focale dell’intera vicenda – un mito innegabilmente ancora attuale ai nostri giorni –, l’idea-base di questa impostazione registica deriva da una scena del film Intervista di Federico Fellini, dove un’Anita Ekberg e un Marcello Mastroianni, già anziani, guardano pieni di nostalgia le immagini della scena del bagno nella Fontana di Trevi, la più famosa della Dolce vita. Analogamente, all’inizio del Faust secondo Rechi, il protagonista ormai vecchio, nel suo studio, somigliante a una sala di proiezione privata, è colto – al pari di una stella del grande schermo dimenticata, che contempla i suoi vecchi film, con inevitabile riferimento alla Norma Desmond di Sunset Boulevard – dal rimpianto per la giovinezza perduta. Poi, quando decide di accettare il patto con Méphistophélès, la scena si trasforma in una specie di set cinematografico: un universo artificiale, dove tutto compare come per magia – da una scena di guerra a una di Music hall – tra l’altro, con l’inserimento di diverse citazioni da film famosi. Dunque, Méphistophélès diviene una sorta di regista, che crea intorno a Faust un mondo di fantasia, in cui quest’ultimo ha la possibilità di assaporare quei piaceri che si era da sempre precluso.
Non si può negare che – almeno sulla carta – si tratti di un’impostazione interessante. Nondimeno, si pone sempre il solito problema – ci si perdoni l’insistenza sull’argomento – della congruenza rispetto alla musica e al libretto o, più in generale, al contesto culturale in cui è nata l’opera. A questo proposito, ci sembra che sia stato quasi completamente sacrificato lo spirito religioso, tipico di un certo romanticismo e certamente presente in Gounod, pur intrecciato a un innegabile edonismo. Ne risente, in particolare, la scena nella chiesa, in cui, dopo la maledizione di Marguerite, Méphistophélès mostra un comportamento a dir poco scurrile ai danni dell’ingenua fanciulla. Ma non è il solo episodio di questo tipo, a cui si assiste nel corso della rappresentazione. Nulla di moralistico da parte di chi scrive: semplicemente si rileva l’estraneità di tali “trovate” rispetto a un certo codice estetico. Analogamente, apparivano prosaici – o anche comici – il diavolo nei panni di Lola Lola-Marlene Dietrich – protagonista del film Der blaue Engel – durante la Walpurgisnacht, dove appaiono sull scena anche alcune star femminili del grande schermo, a sedurre un riottoso Faust, o Marguerite rappresentata come umile inserviente in grembiule, che intonando la canzone “Il était un roi de Thulé” lava per terra.
Abbastanza discutibili nel gusto risultano anche altri costumi: l’abito bianco coloniale, corredato da bastone da passeggio, e il panciotto grigio sopra la camicia bianca, indossati da Méfistophèles; o la sottoveste nera e il vestito di lustrini, portati da Marguerite; o, ancora, gli abiti femminili vivacemente colorati – modello café chantant –, che si vedono nella scena del ballo.
Suggestivo è risultato l’uso delle luci: nella prima parte predomina il bianco, mentre via via che la situazione si fa più erotica esse si tingono di rosso. Del resto, questo colore caratterizza anche altri elementi sulla scena come le due enormi labbra, contratte in una smorfia, che fanno da sfondo al duetto d’amore (“Laisse-moi contempler ton visage”) tra Faust – in camicia bianca e bretelle – e Marguerite – in abito nero scollato –, cantato mentre i due amanti ballano come se si trattasse di un lento, illuminati da un riflettore, per collocarsi alla fine dentro la smisurata bocca; o il cuscino con cui la sciagurata fanciulla, prima della sua redenzione finale, soffoca il bambino, nato dal suo rapporto peccaminoso con l’inquieto “docteur”.
Sul versante musicale, la direzione di Frédéric Chaslin è risultata piuttosto equilibrata, senza calcare la mano sui caratteri più esteriori del grand-opéra, per dare risalto agli aspetti intimistici, per quanto la scelta di tempi abbia privilegiato quelli veloci, a scapito forse di una lettura più nuancée. Inappuntabile, comunque, era l’affiatamento con i cantanti, costantemente guidati dal chiaro gesto del direttore francese. Quanto al Cast, Ivan Ayon Rivas ha offerto un Faust – diffusamente tormentato da un rovello interiore nella sua vana ricerca della felicità – vibrante e autorevole, capace di qualche prodezza nel registro acuto, per quanto non sarebbe guastato un suo maggiore controllo a livello stilistico. Encomiabile Carmela Remigio come Marguerite nel suo dibattersi tra passione d’amore, senso del peccato e volontà di redenzione, segnalandosi per intensità espressiva e intelligenza nell’uso dei propri mezzi vocali. Travolgente il Méphistophélès di Alex Esposito, che ad una gestualità di sicuro effetto ha saputo coniugare un fraseggio scolpito e una vocalità omogenea nei vari registri, oltre che ben caratterizzata nel timbro: lo si è apprezzato, ad esempio, nella serenata (“Vous, qui faites l’endormie”), cantata, mentre in scena campeggiava un cerchio di luce rossastra, sfoggiando movenze da Music hall. Particolarmente sensibile si è dimostrato, nel canto e nel gesto, Armando Noguera nel ruolo di Valentin, custode dei valori morali e religiosi. Convincente nella sua caratterizzazione è risultato lo scanzonato Siébel di Paola Gardina, mentre un’indubbia professionalità si è colta nel Wagner di William Corrò e nella Marthe di Julie Mellor. Ottima la prestazione del coro, istruito da Alfonso Caiani. Successo pieno, soprattutto per i ruoli principali con qualche acclamazione.