Milano, Piccolo Teatro Strehler: “L’Heure Exquise”

Milano, Piccolo Teatro Strehler
“L’HEURE EXQUISE”
Regia e Coreografia Maurice Béjart
rimontata da Maina Gielgud su gentile concessione di Fondation Maurice Béjart
Musiche di Anton Webern, Gustav Malher, Wolfgang Amadeus Mozart, Franz Lehàr, Tea for Two dal musical No, No, Nanette
Con: ALESSANDRA FERRI, THOMAS WHITEHEAD
Scene Reger Bernard
Luci Maina Gielgud, Marcello Marchi
Costumi Luisa Spinatelli
Milano, 20 aprile 2022
Mancano pochi minuti all’inizio, e delle luci intermittenti filtrano da sotto il sipario. Tutto è pronto. La Prima de L’heure exquise al Piccolo Teatro Strehler di Milano sta per cominciare. Le emozioni degli ultimi momenti, quelli che precedono l’alzata del sipario, staranno palpitando anche per una veterana del palco come Alessandra Ferri? È probabile. Nonostante abbia già debuttato in questo spettacolo l’anno scorso, al festival di Ferrara, questa è la Prima nella sua Milano, e in un teatro come il Piccolo, legato anche ad una messa in scena de I giorni felici da parte di Strehler, la quale catturò la curiosità di Beckett. Ci chiediamo se Beckett, qualora fosse stato ancora vivo, si sarebbe mostrato curioso anche nei confronti di questo spettacolo, ispirato anch’esso a I giorni felici.

L’heure exquise è stato riportato in vita dalla Ferri dopo anni di oblio. Spettacolo creato da Béjart per Carla Fracci nell’ambito del festival di Torino del 1998, è un’opera che alcuni commentatori non compresero fino in fondo, chiedendosi due cose: in che modo si ispirasse a Beckett, e come quello potesse essere assimilabile allo stile di Béjart. Eppure, così è. La stessa Fracci ci dice, in un’intervista di Marinella Guatterini, pubblicata per l’occasione sull’Unità: “Com’è Béjart al lavoro?” “Attentissimo al gesto, che deve essere il suo, preciso: béjartiano. Ma lascia spazio all’improvvisazione, ai cambiamenti”. Non riconoscere lo “stile di Béjart” è naturale. In primis, perché lo stesso Béjart mal sopportava le etichette (si vedano le Lettere a un giovane danzatore). In più, questo non è un vero e proprio “balletto”, se così vogliamo definirlo, ma uno spettacolo in cui né una storia, né una coreografia devono essere messi in scena. Piuttosto lo è l’esistenza di una ballerina che, alla fine della sua carriera, ha da far passare il tempo, ricordando. Passiamo poi al secondo punto. “Variazioni su un tema di Samuel Beckett (Oh, les beaux jours)”: questa è la definizione che Béjart ha dato di questo spettacolo, e che viene riportata come sottotitolo. I musicisti lo insegnano: da un piccolo gruppo di note che connotano un tema, le variazioni possono essere tali e tante da creare qualcosa che sembra nuovo. Così è per L’heure exquise. C’è quindi molto più Beckett di quel che sembra. È una Winnie, quella di Béjart, che afferma esplicitamente che vorrebbe essere un’attrice, in modo da poter vivere la commedia di Beckett. Invece è una ballerina: come ballerina è quindi destinata a vivere questo spettacolo. È esplicito, non siamo di fronte a una donna paragonabile alla Winnie di Beckett. Il suo percorso emotivo sarà quindi differente. Una parentesi lirica apre – forse solo materializzando un pensiero di Winnie – la montagna di punte che sta sommergendo la protagonista, che poi comincia a ricordare i “suoi classici”. Come avviene per la Winnie di Beckett, che menziona, in maniera più o meno errata, dei versi di opere che riemergono dalla sua memoria: “Uno se li scorda, i classici. (Pausa). Oh, non tutti. (Pausa). Una parte. (Pausa). Una parte resta. (Pausa). È questo che trovo meraviglioso, una parte resta, dei classici, ad aiutarci a passare il giorno. (Pausa). Eh sì, una grazia, una vera grazia”. E sono quei classici che, fino alla fine, tennero compagnia allo stesso Beckett, il quale portò in casa di riposo la copia delle Divina Commedia sottolineata durante il periodo universitario. I classici di una ballerina sono i ruoli principali con cui ha ballato, tra cui riconosciamo sicuramente gli iconici passi di Giselle; ma assistiamo anche a piccoli esercizi alla sbarra, al ricordo dello “stile antico”, a tanti passi indistinti come se fossero abbozzati in casa, quando un ballerino, mentre pensa, andando dal bagno alla cucina, fa un piccolo piqué, o un qualsiasi altro passo di una coreografia che gli è rimasta nel cuore. Con questo spirito si guarda lo spettacolo. E se ha ragione Paul Valéry, secondo cui il senso dei versi scritti da un poeta è quello che il lettore gli conferisce, se uno spettatore non è minimamente in grado di mettersi nei panni di una ballerina, e rivivere con lei i primi pliés alla sbarra, gli inchini ad un pubblico che non c’è più, la gioia di camminare per lo spazio ballando, appoggiandosi a quel che rimane del suo partner, caricando tutto ciò di senso, forse lo spettacolo lo lascerà un po’ freddo, o gli risulterà criptico. Si chiederà: dov’è Beckett? Dov’è quella sofferenza esistenzialista? Dalla quale, comunque, lo stesso Beckett prese un po’ le distanze. La chiave di lettura, lo abbiamo detto, è quella della variazione, come quella musicale, su un tema. Gli elementi tematici della melodia di Beckett sono quindi presi e trasformati. Le note di fondo sono però riconoscibili.Il merito più grande della Ferri è quello di aver posto di nuovo sotto i riflettori questo spettacolo, contando anche sull’appoggio di Micha Van Hoecke, che lo creò insieme alla Fracci nel ’98. Sempre l’anno scorso, Alessandra contattò anche Carla, che si dimostrò contenta di questa ripresa, ma morì pochi mesi dopo. Poco dopo venne a mancare anche lui. Prendiamolo come un loro testamento.
Alessandra Ferri è stata toccante, e ci ha stupito pure nelle parti recitate. Anche Thomas Whitehead è stato un affascinante partner. Con L’heure exquise non si è alla ricerca ossessiva del capolavoro, e altresì questo crediamo sia nello spirito di Beckett. Odiava che gli si chiedesse se una tal opera fosse destinata a rimanere nel tempo, quale opera valesse di più, eccetera. Non è questo che hanno cercato la Ferri e Whitehead, ma piuttosto hanno voluto condividere qualcosa di sé. È stata quindi veramente una “heure exquise”, che riecheggia ancora con l’omonima aria de La veuve joyeuse canticchiata dalla Ferri in chiusura dello spettacolo. Sarebbe da capire se oltre al riferimento esplicito a quest’aria, ce ne sia un altro, quello a L’heure exquise di Verlaine. Riferimento che non sarebbe campato in aria, non solo per il sentimento che traspare dal componimento, ma soprattutto perché richiamerebbe la corrispondenza del titolo della commedia di Beckett con un’altra poesia di Verlaine: i giorni felici, les beaux jours, sono quelli del Colloque sentimental.
Sarà così? Forse. Ma poco importa, in fin dei conti. Ci penseremo anche noi ricorsivamente, ricordando i giorni felici in compagnia dei “nostri classici”, tra cui ci sarà forse anche questo spettacolo. Così è di sicuro per chi vi scrive, le cui note di quell’aria han rammentato i passi danzati (ad un livello molto differente rispetto a quello della Ferri!) in una scuola per dilettanti.