Dal 22 aprile 2022 all’11 settembre 2022
Orari: lunedì 14.30 – 19.30 / dal martedì alla domenica 10.00 – 19.30 / giovedì chiusura alle 22.30
Biglietti: Intero 15 € / Ridotto 13€
È la terza mostra fotografica che noi di GBopera visitiamo a Milano in questa primavera. Dopo quella di Henri Cartier-Bresson al Mudec (qui la nostra recensione) e di Ferdinando Scianna a Palazzo Reale (qui la nostra recensione), torniamo al Mudec con tutt’altro tipo di artista. Se infatti con la fotografia bressoniana siamo davanti alla poetica dell’istante, della totale adesione alla fotografia di racconto, che ha molto in comune con il neorealismo; e con Scianna assistiamo a una certa disgregazione di quei confini, per arrivare a una dimostrazione di come anche gli scatti di finzione (come quelli di moda) siano fotografia dell’istante; con David LaChapelle sembriamo ancora più lontani dalla fotografia di realtà, e la finzione rappresenta l’unica protagonista.
David LaChapelle era presente oggi alla conferenza di inaugurazione della mostra, di cui si dichiara soddisfatto, e che reputa la più completa mai realizzata riguardante il suo lavoro. Sin dai suoi inizi, quando la fotografia era ancora analogica, LaChapelle non entra nel ciclo dello scatto-sviluppo passivamente, ma si inserisce nel mezzo del processo intervenendo sui negativi. Ne sono testimonianza le meravigliose vetrate esposte davanti all’ingresso: mescolate alle più recenti, queste vetrate sono tra i primi lavori dell’artista, il quale, da adepto di Andy Warhol, applica la pop art alla fotografia. LaChapelle, così, sembra forse molto vicino ad un pittore: non solo compone la sua scenografia, sceglie, costruisce, modella tutto ciò che verrà catturato dall’otturatore; successivamente, questo lavoro di costruzione lo continua, aggiungendo elementi che nella composizione originaria non c’erano. Quindi, viola quel che fotografia è (o almeno dovrebbe essere): il catturare quel qualcosa che nell’istante è davanti alla macchina, e quindi può essere fissato, mentre quel che non è presente non può esserlo. Prendiamo, ad esempio, uno dei suoi lavori più famosi, Deluge (presente in mostra), ispirato al Giudizio finale di Michelangelo: realtà immanente allo scatto e interventi successivi si mescolano senza soluzione di continuità. Cosa è stato aggiunto e cosa no? E la stessa domanda sorge guardando le foto esposte riguardanti l’After the deluge. Possibile che un edificio sia stato allagato in tal modo? Le statue e i quadri appesi alle pareti sono aggiunte successive? La goccia che genera quei desolanti cerchi concentrici sul pelo dell’acqua, unica nota dinamica di una delle composizioni, com’è stata generata? Non lo sapremo mai, forse. Però è davanti a noi. Tutto ciò è soltanto un modellino, com’è per altre foto in mostra? È il caso di Gas: Shell, Spree, e dei vari Land Scape.
È stata una bella occasione quella di aver sentito parlare David LaChapelle in persona del proprio lavoro e della propria concezione della fotografia. Per lui è un’arte scenica, è uno strappo sul presente, un presente che lui vuole ricreare, mediante un progetto. Ma, ripensando con attenzione a quanto affermato nel suo intervento, anche nella totale finzione, anche con il massiccio intervento sulla fotografia in post-produzione, c’è una vitale importanza del momento. Infatti, parlando delle foto che riprendono scene bibliche, riferisce che: “la spontaneità, l’intuizione, ci hanno guidati; non certamente la pianificazione, o il voler capire prima quello che sarebbe successo dopo”. Il che ci ricorda quanto sentito da Scianna riguardo alle foto di moda.Ma ci sono altri importanti elementi della sua poetica, messi in risalto anche nell’unico scritto che introduce il catalogo della mostra. Ovvi sono i collegamenti con l’arte rinascimentale, mentre porterebbe via troppo tempo parlare dell’importanza del gesto nelle foto di LaChapelle, e di come proprio il gesto e lo studio delle fisionomie avevano un ruolo nel Sei e Settecento: sarebbe stato un ottimo argomento per un saggio correlato alla mostra. Dobbiamo però aggiungere qualcosa sul fatto che LaChapelle cerchi sempre un contatto con chi guarda le sue foto. È per questo motivo che non va visto come un artista provocatorio, ma solamente sincero. E, a nostro avviso, il contatto con il pubblico viene raggiunto, soprattutto in questa mostra, anche grazie alla videoinstallazione che arricchisce il percorso e ci permette di entrare ipoteticamente nei set fotografici dell’artista, come quello di Revelations, quasi fossero dei tableaux vivants settecenteschi (ancora il Settecento!).
Le opere di LaChapelle, quindi, ci mettono davanti a una naturale artificialità, facendo quasi desiderare al visitatore di essere lui stesso un possibile protagonista di una di quelle foto. Perciò, potrebbe trovarsi nelle condizioni di dover domare un desiderio recondito emerso da una sconosciuta profondità, e di dover reprimere la volontà di spogliarsi, lì, seduta stante, per sperare di poter poi indossare il costume che David LaChapelle vorrà mettergli indosso.
Foto: David LaChapelle, After the Deluge: Statue, 2007, Los Angeles –David LaChapelle, Spree, 2020, Los Angeles