Napoli, Teatro Bellini, Stagione 2021/22
“LE SEDIE”
Farsa tragica in un atto di Eugène Ionesco
Traduzione Gian Renzo Morteo
Il Vecchio MICHELE DI MAURO
La Vecchia FEDERICA FRACASSI
Regia Valerio Binasco
Scene e luci Nicolas Bovey
Costumi Alessio Rosati
Musiche Paolo Spaccamonti
Produzione Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale
Napoli, 31 marzo 2022
Qui le date delle prossime repliche
Al Bellini, sono arrivate Le Sedie – quelle d’Eugène Ionesco, datate 1952. Questa “farsa tragica” c’ha settant’anni. Eppure, sembra scritta ieri. Perché, quello d’Eugène, è un teatro ove il gusto per la morte – per dirla à la Baudelaire – impera e comanda (congiuntamente, quasi) col gusto per la vita. Questa volta, non più Teatro dell’Assurdo (locuzione che s’affibbia all’Opera di Ionesco), ma… teatro-serbatoio d’una serie d’allucinanti “Crudeltà”: è un morbo, una iattura, una peste che s’attacca addosso. Teatro che, dunque, si dovrebbe risolvere o attraverso una redenzione totalizzante o una definitiva devastazione. Spettatore compreso. E – dal momento che queste son soluzioni pressoché astratte e poco pragmatiche, se non idealmente –, il teatro resta irrisolto o, meglio, risolto a metà, coi due Vecchi – personaggi dell’opera – che s’ammazzano. Ed ecco la prima “Crudeltà”. Leggendo, poi, ne scoprirete delle altre. Valerio Binasco, regista, rilegge Ionesco come se Le Sedie le avesse fabbricate Antonin Artaud, altro drammaturgo – papà, appunto, del Teatro della Crudeltà: a parer nostro, dunque, la più bella esemplificazione d’un teatro rovesciato, i cui contorni paiono così netti da apparire, poi, illeggibili. Un lume che t’acceca. Non è un caso, infatti, che lo scrivente vi stia parlando della “Crudeltà” artaudiana: il Vecchio e la Vecchia parlano senza conferire alla loro voce gradazioni o sfumature. No a nuance, dunque. No ad alterazioni timbriche. Michele Di Mauro e Federica Fracassi, avvolti nei costumi stravaganti di Alessio Rosati, mettono in fila parole coscientemente smorte, d’una spietata freddezza – sottratte, dunque, a goffaggini tanto sentimentalistiche e, vivaddio!, a quelle meramente psicologiche. Non sono due personaggi; ma, due figure, due “tipi”. Ed è anche qui, nell’anima raffinata d’un linguaggio “freddo”, oggettivo – e, dunque, universale –, che s’installa e s’annida la “Crudeltà” – quella inflitta allo spettatore, che deve abbandonarsi ad un teatro pseudo-umano o, meglio, umanoide. Però, in fondo, quei due Vecchi commuovono perché parlano, idealmente, in nome d’ogni uomo: il Vecchio ce lo racconta: «Io non sono io: sono me stesso in un altro.». Dopotutto, infatti, il teatro ionescano è una faccenda collettiva, come una epidemia. Ma, questa volta, è anche teatro “inafferrabile” e, perciò, dogmatico: altra somma “Crudeltà” – cioè, quella che c’impone d’accettarlo così com’è. E Binasco non può che prenderne atto: s’affaccia, dunque, ad osservare aspetti ignoti (e, però, soltanto apparentemente informali) d’una realtà condotta ad estreme conseguenze, sull’orlo dell’irrealtà, anzi, della pazzia: il regista compie un’operazione esemplificativa – amputando, dunque, certe cose del testo originale, cose in cui risiede l’ “assurdo” ionescano. L’Oratore, che avrebbe dovuto rivelare ad ascoltatori invisibili, il proclama del Vecchio, non c’è più. Tolto l’ “assurdo” – che in Ionesco è più reale del reale effettivo –, resta la pazzia: due vecchi un po’ buffi ed ammattiti che, in preda a traveggole, giochicchiano teneramente coi loro invitati fatti d’aria, irreali. I due paiono dominati da quel sentimento d’onnipotenza che assale i ragazzini a sette anni – dominati, dunque, dalla “noia”, quella di Moravia, e che i due combattono giocando coll’irreale, coll’invisibile. Irreale, dunque, a cui viene inflitta una stupenda operazione d’integrazione e d’innesto nella realtà: viene normalizzato, regolamentato, come accadrebbe ad uno dei tanti dati che concorrono alla formazione della realtà. Gesti e movimenti dei due attori, infatti, ci paiono profondamente matematici… anzi, ingegnosamente geometrici o schematici: i due tratteggiano, in terra, nello spazio della scena, una sorta d’ubriaca geometria – ubriaca perché vittima d’una costante variazione, composta da varie traiettorie di forme geometriche irregolari – proprio come quelle che le “mosche dei lampadari” compiono nei loro voli. Traiettorie, peraltro, commentate e definite dalle musiche di Paolo Spaccamonti.
L’attore Michele Di Mauro compie un lavorìo d’ “impacciamento”: linguaggio e movimenti del Vecchio ci paiono stupendamente incerti, esitanti. Non cessa d’impigliarsi nella sua vestaglia, mormora, bofonchia cose; cose che, certe volte, s’agghiacciano su una bocca smunta – tutta incipriata. Altre volte, invece, le sciorina freddamente. Parimenti ottima, l’attrice Federica Fracassi: la sua Vecchia – truccata come un clown e costretta in un ritmico tremore, dall’ampiezza a stento percettibile – emette suoni rauchi, gracchianti, ma grondanti d’una commovente tenerezza. A volte, le sue frasi si combinano con quelle del Vecchio, dando vita a forme contrappuntistiche d’una efficace bellezza. La rappresentazione e lo spazio, in cui la rappresentazione accade, c’appaiono, inoltre, fatalmente interconnessi. I fatti o, meglio, i non-fatti accadono in una stanzetta – quella progettata da Nicolas Bovey – con delle pareti grigiognole e tutte ammuffite, su cui, pallide luci – anch’esse ideate dallo scenografo – riflettono le ombre biancastre dei due Vecchi. Evento intriso d’una stupenda commozione. E, in un angolo della stanzetta, e sopra un pavimento carbonizzato o coperto da un terriccio bruciacchiato, ecco le famose sedie – quelle dove s’accomodano gli ospiti invisibili dei due anziani. Sedie tutte affastellate, ammassate e costrette in un’estetizzante collinetta, in un calvario legnoso. Pieno successo d’un pubblico tutto attento e commosso, magicamente integrato nella rappresentazione quando veniva illuminato dall’ “occhio di bue”.