Verona, Teatro Filarmonico: “Rigoletto”

Verona, Teatro Filarmonico, Stagione Lirica 2022
“RIGOLETTO”
Melodramma in tre atti su libretto di Francesco Maria Piave, dal dramma “Le roi s’amuse” di Victor Hugo.
Musica di Giuseppe Verdi
Il Duca di Mantova IVAN MAGRÌ

Rigoletto LUCA MICHELETTI
Gilda ELEONORA BELLOCCI
Sparafucile GIANLUCA BURATTO
Maddalena ANASTASIA BOLDYREVA
Giovanna AGOSTINA  SMIMMERO
Il Conte di Monterone DAVIDE GIANGREGORIO
Marullo NICOLÒ CERIANI
Matteo Borsa FILIPPO ADAMI
Il conte di Ceprano ALESSANDRO ABIS
La contessa di Ceprano FRANCESCA MAIONCHI
Un usciere di corte NICOLÒ RIGANO
Paggio della Duchessa CECILIA RIZZETTO
Orchestra e Coro della Fondazione Arena di Verona
Direttore Francesco Ommassini
Maestro del Coro Ulisse Trabacchin
Regia Arnaud Bernard ripresa da Yamal das Irmich
Scene Alessandro Camera
Allestimento della Fondazione Arena di Verona
Verona, 27 febbraio 2022
“La mia migliore opera”: con queste parole Verdi definiva il suo Rigoletto, nel quale il maestro si compiaceva di essere riuscito a completare la perfetta sintesi del suo pensiero drammaturgico, arrivando a scolpire il personaggio ideale, nella sua complessità psicologica e calato in un dramma vario e potente. Così nel gobbo mantovano coabitano il buffone cinico, irriverente e spietato (arriva persino a deridere il dolore di un padre, proprio lui che cerca di preservare la figlia dalle insidie di corte), il vedovo capace di commuoversi al ricordo della moglie, il padre tenero ed affettuoso, il freddo e lucido mandante di un omicidio. Al Filarmonico di Verona Rigoletto tornava nell’allestimento firmato da Arnaud Bernard nel 2011 per la Fondazione Arena in coproduzione con i teatri di Losanna, Marsiglia, Avignone, Vaucluse, Angers e Nantes e ripreso poi nel 2016. Allestimento abbastanza tradizionale e in linea con la drammaturgia verdiana con lo spazio scenico che richiama lo sfarzo della corte dei Gonzaga e l’Umanesimo in generale, sostanzialmente strutturato su due livelli, come in un teatro anatomico su cui si affaccia una balconata. L’impianto scenografico di Alessandro Camera, abbastanza statico, vede dapprima la casa del buffone come un tempietto ideato sui modelli del Bramante poi lo spazio via via occupato da modellini di edifici rinascimentali per finire ad un sinistro barcone sulle rive del Mincio come casa di Sparafucile. Su questa struttura si muove la regia di Bernard che, pur partendo da un’idea abbastanza originale (il Duca creatore di corpi perfetti che però fallisce con Rigoletto, uscito deforme) non riesce a svilupparla appieno portando invece lo spettacolo ad appiattirsi senza risaltare a dovere tutta la complessità psicologica di cui il dramma è disseminato. Nelle intenzioni registiche prevale tuttavia la componente maschilista del Duca, la multiforme presenza di Rigoletto (di cui è difficile cogliere quale lato prevalga), e il parallelo tra Gilda e Maddalena, due vittime accecate dall’amore (l’omicidio della giovane avviene con una pioggia di fazzoletti bianchi che simboleggiano la purezza e l’innocenza tradite). In generale la messinscena muove in una visione oscura, a tratti soffocante, come a voler attenuare lo splendore del Rinascimento per esaltarne invece il lato più nero; le luci, pur creando talvolta dei buoni effetti, non sempre risultavano efficaci a sostenere l’impianto scenico. Per concludere, tutto l’aspetto visivo muoveva da una buona idea di partenza che però è andata perdendosi durante l’intero spettacolo. Al suo debutto veronese, nel ruolo del titolo, il baritono Luca Micheletti interpreta il gobbo con ammaliante disinvoltura e sicurezza scenica (non dimentichiamo che è anche attore e regista) e con un bel timbro vocale; particolarmente incisivi il suo monologo Pari siamo! recitato con particolare cura e fraseggio e l’invettiva Cortigiani, vil razza dannata alla cui trascinante veemenza ha fatto seguito la distesa ed appassionata cantabilità della sua perorazione. Eleonora Bellocci è una Gilda precisa e puntuale ma il suo fraseggio, pur rispettando l’innocenza e il disincanto del personaggio, non evidenzia appieno i contraccolpi subìti (la violenza, il tradimento, la scoperta che suo padre è il buffone di corte); la voce non manca, forse difetta solo di una certa maturità nel ruolo che potrà arrivare con il tempo. Il Duca crudele e seduttore era Ivan Magrì, già interprete del ruolo nella recente tounée omanita con i complessi della fondazione; è apparso più a suo agio nelle due arie E’ il sol dell’anima e Parmi veder le lagrime, dove la tessitura è centrale ed il canto disteso mentre  nella cabaletta seguente, così come nella celebre La donna è mobile la voce rivelava qualche forzatura nella zona acuta con suoni poco armonici. Un sicuro e tonante Sparafucile era quello del basso Gianluca Buratto, dalla generosa sonorità già nel duetto del primo atto e in tutta la scena del Mincio; ben aderente al suo ruolo di sicario, in cui convivono sarcasmo, cupidigia e falsa lealtà, ha ampiamente compensato con le doti vocali una scarsa valorizzazione sul piano registico. Lo stesso si può dire di Anastasia Boldyreva, penalizzata anch’essa da una regia che nel terzo atto fa cantare i personaggi in equilibrio su piani inclinati, di bella vocalità ma poco spontanea in un ruolo che la vorrebbe tradizionalmente adescatrice. A completare il cast vocale vi erano Agostina Smimmero (Giovanna), Nicolò Ceriani (Marullo), Filippo Adami (Borsa),  Francesca Maionchi (Contessa), Nicolò Rigano (Usciere di corte) e Cecilia Rizzetto (Paggio) tutti adeguatamente presenti in scena. Una menzione particolare meritano, a dispetto dell’esiguità della parte, il Monterone di Davide Giangregorio (chiamato a sostituire un collega) e il Ceprano di Alessandro Abis. La concertazione di Francesco Ommassini prendeva forma dall’idea registica, cercando una sonorità cupa e drammatica (già dal Preludio), con una cura dei piani sonori tuttavia non sempre azzeccata anche se nel complesso rispettosa della partitura; le sonorità dell’orchestra erano talvolta eccessive ma non va dimenticato che essa suona ancora scoperta nell’osservanza (ormai anacronistica) delle regole in tema di pandemia.  Ommassini opta per una duplice scelta, riaprendo i tagli di tradizione ed eliminando le corone e le puntature frutto di sedimentazioni mutate nel tempo e nei gusti; concede tuttavia quelle irrinunciabili al termine di Sì vendetta e La donna è mobile. Un minore autocompiacimento e più attenzione alla compagnia di canto, anche in certe scelte di tempi, sarebbero comunque auspicabili. Molto bene il coro maschile della Fondazione che rivela l’ottimo lavoro svolto in pochissimo tempo dal nuovo maestro Ulisse Trabacchin; la parte corale non è particolarmente complessa in sé ma dipinge bene l’ambiente perfido ed ipocrita dei cortigiani, soprattutto nel secondo atto. Pubblico abbastanza numeroso, a conferma che Rigoletto è un titolo amato; non abbastanza tuttavia da riempire il teatro anche se attento e prodigo di consensi. A grande richiesta è stato concesso il bis del duetto Sì vendetta, eseguito a sipario chiuso. Foto Ennevi per Fondazione Arena.