Napoli, Teatro “Bellini”: “Miracoli Metropolitani”

Napoli, Teatro Bellini, Stagione 2021/22
“MIRACOLI METROPOLITANI”
Spettacolo di Carrozzeria Orfeo
Drammaturgia di Gabriele Di Luca
Plinio FEDERICO VANNI
Clara BEATRICE SCHIROS
Igor FEDERICO GATTI
Cesare MASSIMILIANO SETTI
Patty ELSA BOSSI
Hope AMBRA CHIARELLO
Mosquito/Mohamed ALEPH VIOLA
Regia Gabriele Di Luca, Massimiliano Setti, Alessandro Tedeschi
Scene e luci Lucio Diana
Costumi Stefania Cempini
Musiche Massimiliano Setti
Napoli, 2 marzo 2022
Tra un piatto di tagliolini alla lepre ed un bidone di feci da svuotare, Miracoli Metropolitani è il ritratto d’una società smarrita; il ritratto dell’umanità che, vittima d’una marginalità coatta, s’illude di sfuggire ad un’atroce sopravvivenza. Sopra le tavole del napoletano Teatro Bellini, Carrozzeria Orfeo porta una “tragedia”, al netto delle risate scatenate. Perché, in questo caso, è nel riso che s’annida l’angoscia: l’angoscia è là, dietro ogni risata, dietro ogni spudorata malaparola.
Un’ex carrozzeria – adesso, tre stanze meschine, con cucinino ed un paio di brande – è il ghetto entro cui un cuoco e famiglia s’ingozzano coi loro rimpianti: drammi interiori che esteriorizzano in una isterizzata recitazione. (Tra un po’, c’arriveremo). La loro alienazione, dunque, è intrisa d’una poetica sacralità: sopra l’angoscia, viene steso l’impenetrabile velo del sarcasmo, che – però – sa di fiele: è l’atroce ghigno del martirizzato dalla «merda». Sì, perché la «merda» sta inondando la città; palle di lardo stanno intasando le fogne. E le tre stanze-ghetto – ideate dallo scenografo Lucio Diana, e dal medesimo soffusamente illuminate, – sono l’ “arca di Noè” della famiglia in mezzo ad un mare di «merda». I personaggi – cuoco e familiari, che fanno cibo da asporto, – maneggiano tagliolini, tagliatelle e deiezioni. E la scatologia – conversazione che ha, per tema, le feci – assume, qui, una funzione politica. «Cosa cucinate, oggi?» – «Merda!», risponde Plinio, il cuoco; perché, mentre le sue mani sozze preparano il sugo di lepre, fuori – e la radio l’annuncia – la barbarie del razzismo torna ad ammazzare: le mani sozze della politica deportano gli immigrati nei lager, con violenza pari a quella nazifascista; l’intolleranza – infame e rozza – e la «merda» – che effluisce dai tombini – sono un nuovo Covid-19. Difatti, si richiudono tutti in casa. La scatologia, dunque, può, metaforicamente, rappresentare ciò che il potere può fare dei corpi che sono ad esso sottoposti: li trasforma in feci, in materiale di scarto da eliminare.
Il drammaturgo Gabriele Di Luca organizza il suo testo distribuendo omogeneamente, in esso, effetti e variazioni che concorrono alla formazione delle sue componenti sonore e linguistiche: la drammaturgia c’appare come una partitura, in cui l’intonazione e la velocità della parola prevalgono sulla sua forma originaria. Un lavoro chirurgico, un trionfo di “significanti” – immagini acustiche –, e di suoni appuntiti, utilizzati come leitmotiv. Un ritratto linguistico delle isterie e delle nevrosi dei personaggi, vivificati dalla regia – a cura del medesimo drammaturgo, di Massimiliano Setti e di Alessandro Tedeschi. I personaggi sono incaricati a esprimere, attraverso una isterizzata recitazione, uno squinternato stato d’angoscia, che attraversa e possiede tutti i personaggi. Ciò li rende, idealmente, un solo personaggio, capace, però, d’assumere varie voci. E, così, Plinio, il cuoco – interpretato dall’ottimo Federico Vanni –, è il ritratto del traumatizzato, dell’inquieto: patisce un’esistenza paralizzante, attenuata da un caricato guizzo comico e da intensità e mutamenti d’intonazione; esistenza che, metaforicamente, terminerà paralizzato, sopra di una carrozzella. All’amico Cesare, invece, Massimiliano Setti gli garantisce frasi intrise d’una penetrante carica affettiva, servendosene quando deve mozzarci il fiato col suo dramma – quello d’un padre senza più il figlio. Mentre, Federico Gatti propone, opportunamente, il ritratto d’un ragazzo, Igor, affetto da una disabilità emotiva. Atteggiamenti bambineschi s’alternano, sapientemente, alla simpatica ingenuità del personaggio. Sua madre è, invece, interpretata da Beatrice Schiros. L’attrice convince per molteplicità d’accenti e per il sentimento borghese dell’ambizione che instilla nella sua Clara; un’eclatante vitalità consente al personaggio d’attenuare la sua, sia pur leggera, “nevrosi”, il cui sintomo più evidente è un urlo alla Munch, senza suono, uno spasmo. Avvolto negli appropriati costumi di Stefania Cempini, completano l’ottimo cast: Aleph Viola (Mosquito/Mohamed), che abbiamo apprezzato per l’istrionica varietà d’atteggiamenti; Ambra Chiarello (Hope), ottima realizzatrice d’espressioni comiche e drammatiche; Elsa Bossi (Patty), ammirata per la garbata ironia, veicolo d’una ponderata comicità.
Al netto di tutto ciò, dunque, la regia serve, in tutto e per tutto, ad un’azione frenetica, dominata da un vistoso senso d’agitazione; un’operazione scissa tra razionale e irrazionale, tra momenti d’irrazionalità tesa e nervosa e momenti d’una razionalità “famigliare” e commovente: la vita rappresentata nella sua inerme completezza, ove situazioni comiche e situazioni tragiche – “allargate” e condotte ad estreme conseguenze anche dalle musiche di Massimiliano Setti – s’alternano e si confondono in modo inestricabile.