Nella storia del ballo, i periodi romantico e classico sono stati di grande importanza per lo sviluppo della danza accademica, in particolare come manifestazione artistica indipendente dall’opera. L’Italia ebbe un ruolo rilevante, e l’importanza storica del suo contributo non sfugge agli studiosi della storia di quest’arte. Oggi vogliamo approfondire l’impronta lasciata sul piano tecnico-artistico da donne, maestre, ballerine, spesso mogli o parenti di artisti importanti e per questo ricordate dalla storia non tanto per il loro contributo, quanto piuttosto per il cognome acquisito. Come troppo spesso è accaduto, insomma, il merito fu attribuito all’elemento maschile della coppia, o della famiglia, ma è sicuro che il lavoro sia stato svolto insieme. La costruzione dello stile e del modello estetico italiano, infatti, fu frutto di anni di studio, sviluppo, applicazione e sperimentazione, praticata da danzatrici e danzatori, con riflessioni teoriche di entrambi i generi. Precedentemente abbiamo pubblicato un articolo dal titolo Grandi Maestri: il presente ne è la continuazione, per riprendere il discorso sullo stesso periodo, ma con protagoniste le donne. Maria Ester Boccherini (1740-1782), Maria Medina (1769-1821), Annunziata Ramaccini (1807-1892) e Sofia Fuoco (1830-1916) sono solo alcuni tra i nomi su cui è utile attirare l’attenzione del lettore; ce ne sarebbero tanti altri, ma le fonti storiche e i documenti scarseggiano anche per queste protagoniste, quindi estendere la ricerca a interpreti meno conosciute sarebbe del tutto impossibile.
Nel secolo XVIII la circolazione di ballerini, maestri e repertori diversi fu incessante in tutta Europa: se i ballerini italiani, francesi, spagnoli e russi monopolizzavano le scene danzanti di tutti i paesi, fra di loro francesi e italiani godevano di un prestigio superiore, giacché la danza nei loro paesi era una autentica istituzione culturale. In Francia e in Italia esistevano sin dalla prima metà del Settecento scuole di formazione e compagnie in cui trovare uno sbocco professionale per l’arte del balletto; negli altri stati nazionali centri del genere sarebbero nati solo molto più tardi. In molti momenti importanti della storia del balletto le donne italiane sono state protagoniste grazie alla metodologia e alla didattica della loro scuola, in cui la fusione di tecnica e pantomima aveva sortito un successo artistico straordinario; grazie a questa fama i ruoli principali, con le variazioni tecnicamente più complesse e ricche di dialoghi mimici, venivano regolarmente assegnati alle italiane. Amalia Brugnoli Samengo è stata la prima ballerina a ballare sulle punte nel 1823, Maria Taglioni interpretò La Silfide nel 1832, Carlotta Grisi diede vita a Giselle nel 1841 e a Paquita nel 1846, Giuseppina Bozzachi, étoile dell’Opéra di Parigi, fu la prima Coppelia nel 1870, Rita Sangalli inaugurò le interpreti di Sylvia nel 1876. Perlustrando i programmi di sala, le locandine e i libretti del tempo, ci si rende conto che le danzatrici italiane godevano dello status di étoile in maniera quasi esclusiva. Nella prima metà dell’Ottocento i ballerini francesi e quelli italiani erano molto diversi, non solo per la tecnica, ma soprattutto per la gestualità e lo stile del porgere; inoltre, non era lo stesso il ruolo di danseur noble e quello di danseur de demi caractère: anche quando il termine sembra meramente maschile, il metro di giudizio delle capacità artistiche era lo stesso per uomini e donne. Un esempio chiaro della preferenza per le ballerine italiane è dato dal caso di Sofia Fuoco e Marie Guy-Stéphan, vissute nello stesso periodo e attive sugli stessi scenari internazionali, per esempio il Teatro del Circo di Madrid negli anni Trenta dell’Ottocento: tutte e due le artiste godevano di grande popolarità, ma la Fuoco interpretava i ruoli principali e un repertorio più classico, mentre la Guy-Stéphan si dedicava soprattutto alle danze di carattere. È importante sottolineare che prima del 1830 l’avanzamento di carriera per una ballerina era molto controllato: era necessario debuttare con un ruolo, ma dopo essere passate per un paio di “prove”, cioè ruoli minori scelti dal maestro, che si ripetevano a lungo prima che l’artista avesse una buona opportunità per emergere rispetto al resto del corpo di ballo; in ogni caso, i nomi dei maestri italiani che dirigevano le compagnie precedevano quelli delle ballerine, e per queste ultime erano come un passaporto per ascendere e brillare.
Maria Ester Boccherini nacque a Lucca il 23 luglio 1740 in una famiglia tutta dedita all’arte: Leopoldo e Maria Santa Boccherini i genitori, suo fratello era Luigi Boccherini, violoncellista molto virtuoso e compositore conosciuto in tutta Europa. Maria Ester intraprese precocemente la carriera di ballerina: nel 1755, quando aveva 14 o 15 anni, ballava a Lucca, mentre nel 1763, ancora molto giovane, ricopriva il ruolo di prima ballerina nel Nuovo Pubblico Teatro di Bologna (poi Teatro Comunale), con uno stipendio di 1.025 lire. Verso il 1760 contrasse matrimonio con Onorato Viganò ed ebbe tre figli: Vicenza Viganò (1760-1814), ballerina e librettista (per Rossini: suo il libretto di Demetrio e Polibio quando lavorava nella celebre compagnia del marito, il tenore Domenico Mombelli), Giulio Viganò (1762-1836), ballerino e coreografo, e naturalmente Salvatore Viganò (1769-1821), che sarebbe diventato un grande ballerino, coreografo e maestro di ballo. Grazie alle prime edizioni di altri libretti è possibile seguire, almeno in parte, la sua carriera di ballerina in titoli come Il trionfo di Clelia al Teatro San Cassiano di Venezia nel 1766 (in cui suo marito era il coreografo), L’Epponima e Mitridate a Sinope al Regio Teatro degl’Intrepidi di Firenze nel 1779: questo significa che anche dopo avere avuto tre figli, Maria Ester continuò a ballare.
Maria Medina nacque a Mayer (Vienna) nel 1769 e morì a Parigi nel 1821: pare che avesse origini spagnole e una bellezza impareggiabile ed era anche conosciuta anche come Maria Josefa o Maria Mayer (dal luogo di nascita). Ballerina del periodo preromantico, quando lavorava a Madrid nel Teatro de los Caños del Peral nel 1788 conobbe Salvatore Viganò in una compagnia d’opera, in cui egli figurava come primo ballerino di stile francese; i due studiarono e si esibirono insieme sotto la direzione di Domingo Rossi. La coppia Medina-Viganó partì quello stesso anno per una tournée in Francia, Inghilterra, Bruxelles e Italia, arrivando fino a Venezia, con Jean Duverbal, il famoso coreografo che avrebbe diretto La fille mal gardée a Bordeaux nel 1789. Anche grazie alla tournée i lacci affettivi tra i due artisti si strinsero sempre più, fino a concludersi in un matrimonio; entrambi i coniugi si avvalsero del talentoso maestro e coreografo, specialmente Viganò, che prendeva lezioni individuali di perfezionamento. La coppia tornò a Venezia nel 1790 e lavorò un paio di anni sulle scene del Teatro San Samuele, poi nel 1793 ritornò a Vienna, dove le esigenze del pubblico nei confronti del balletto erano molto alte, ma i due riuscirono lo stesso a trionfare: Maria mandava in delirio il pubblico maschile, che si arrendeva davanti al suo fascino e all’esuberanza delle sue performances; ballava infatti in abiti trasparenti, e pare sia stata la prima ballerina a usare costumi color carne, per evocare la nudità e la libertà del corpo, secondo uno stile che si sarebbe diffuso moltissimo, restando in auge fino a Isadora Duncan (1877-1927). Maria Medina non indossava niente sopra la calzamaglia, appena due o tre gonne di crepe legate in vita da un cinturino di colore scuro; quel cinturino era l’unico accessorio che indossava veramente, perché le trasparenze delle gonne non coprivano niente, e mentre ballava si alzavano, fluttuavano, lasciando allo scoperto un corpo che sembrava nudo … Ancora nel 1979 a New York la rivista La magia della danza celebrava l’esuberante novità di Maria Medina; ma il mito era iniziato molto prima, se nel 1883 si pubblicava a Torino una lettera dell’Abate Casti, che esaltava la sua capacità di incantare gli austriaci e sottolineava il fatto che Viganò la facesse ballare quasi nuda, con abiti che modellavano il suo ammirevole corpo, con veli molto leggeri, con tanta spontanea voluttà da evocare le pose delle statue o degli affreschi antichi. Maria utilizzava anche le nacchere ed eseguiva costanti salti, ai piedi usava calzare sandali o babbucce di stile un po’ romano, quasi una specie di “ballerine” ante litteram. Le sue apparizioni all’opera di Vienna suscitarono enormi sensazioni e rivoluzionarono il mondo del balletto: l’espressione facciale di Maria Medina era magistrale, e determinante per la riuscita della pantomima; certamente, il suo carattere ispanico deve aver pesato non solo nello stile del ballo, ma anche in quello del marito e delle generazioni di ballerini che seguivano la coppia e la imitavano. La popolarità della Medina divenne tale che l’imperatrice d’Austria, ingelosita, vietava di frequentare i suoi spettacoli, ma il pubblico continuava ad andarci. Maria influenzò anche la moda; grazie allo stile dei suoi costumi, le donne austriache incinte usavano abiti sciolti e di forme singolari, abiti chiamati anche “alla Viganò”. Anche un giovane Beethoven in quegli anni compose le Dodici variazioni su un minuetto “alla Viganò”. Dopo aver furoreggiato a Vienna negli anni 1793-1795, la coppia Medina-Viganò intraprese un’altra tournée in Europa centrale tra 1795 e 1798: Praga, Dresda, Berlino, Amburgo, passando di nuovo per Venezia. Nel museo del Teatro di Berlino si trova una serie di disegni a inchiostro dello scultore Gothefried von Schadow datata 1790, che permette di apprezzare lo stile della ballerina, i suoi abiti accompagnati con sandali legati alle gambe, e la più classica estetica derivante dai canoni greco-romani; inoltre, in questi disegni si osservano posizioni e movenze del passo a due che solo nel secolo XIX avrebbero raggiunto il loro massimo splendore. Maria Medina spinse Viganò a elaborare nuove immagini coreografiche, cercando la simbiosi con la danza pura, una danza più drammatica da congiungere alla pantomima; per questo possiamo affermare che anche lei sia stata la madre del coreodramma, un punto di svolta tra la vecchia e la nuova arte. Il merito principale di Maria Medina fu di proporre una nuova via di accesso all’espressività, un espressionismo diverso e più naturale, uno stile neoclassico ovviamente lontanissimo rispetto al gusto romantico che si sarebbe sviluppato poi. Maria Medina-Viganò, da ultimo, ebbe modo di trasmettere i fondamenti della sua arte mentre insegnava nell’Accademia del Teatro Ducale di Milano, in anni dominati dalle frivolezze dello stile rococò.
Annunziata Ramaccini (1807-1892) nacque a Pisa, in una famiglia di ballerini: suo padre Simone era stato coreografo a Venezia e Padova tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo e fu molto apprezzato. Ramaccini aveva quattro figli: Francesco, Giuditta, ballerina la cui carriera fu stroncata dalla morte prematura a vent’anni, Annunziata e Antonio, il più piccolo; tutti furono ballerini e mimi di professione. I genitori notarono come Annunziata avesse, sin da piccola, un talento speciale, e decisero di farle iniziare il percorso artistico in teatro, attribuendole anche dei personaggi specifici. Suo padre raccontava che desiderava molto distinguersi e non si stancava mai di studiare; insieme alla sorella Giuditta iniziò a lavorare a Vienna, dove si fermò vari anni, approfondendo la tecnica del ballo insieme ai maestri di danza Jean Baptiste e Louis Duport e il celebre maestro di mimo Gaetano Gioia. In breve tempo il talento delle sorelle Ramaccini fu riconosciuto, con il risultato di essere ingaggiate dai principali teatri della Germania e d’Italia. In seguito alla morte della sorella, Annunziata cominciò a presentarsi da sola in teatri come il San Carlo di Napoli, La Pergola di Firenze, il Teatro alla Scala di Milano, per poi tornare al Teatro Imperiale di Vienna, e ancora Torino, Genova, Roma, Venezia, Ancona, Bologna: ovunque andasse era sempre molto applaudita e apprezzata, sia come mima sia come ballerina. Nel 1828 conobbe al Teatro Carlo Felice di Genova, dove dal 1826 disimpegnava il ruolo di prima ballerina, il ballerino di origine napoletana Carlo Blasis, che sposò poco tempo dopo. I due danzarono insieme sino a quando un malanno a un piede costrinse Blasis ad abbandonare il palcoscenico, anche se per qualche anno continuò ancora a esibirsi in ruoli minori. I coniugi Ramaccini-Blasis insegnavano nelle scuole europee più prestigiose, facendo culminare la loro carriera come professori della Imperial Regia Accademia di ballo e di mimica di Milano (ossia la futura Accademia della Scala), tra 1837 e 1851. Nel periodo 1847-1848 i loro allievi regalarono alla coppia un doppio busto che li ritraeva insieme, in segno di riconoscimento e gratitudine. Dopo aver determinato la crescita internazionale dell’Accademia di ballo della Scala, i due coniugi decisero di aprire una loro scuola, in cui la collaborazione era molto attiva in tutti gli aspetti: nella coreografia, nell’attività teorica e in quella didattica. Annunziata insegnava pantomima, danze di demi-caractère e danse noble. Prima di intraprendere la carriera di maestra, Annunziata aveva dimostrato internazionalmente il suo valore di interprete solista, come si può ricostruire da innumerevoli libretti e programmi di sala di balli, intermezzi e spettacoli coreografici in cui il suo nome ha un posto di primo rilievo.Sofia Fuoco (1830-1916), nata a Milano come Maria Brambilla, decise di cambiare il proprio nome riprendendo il cognome della madre. Allieva di Carlo Blasis e membro del gruppo “Les Pléiades”, debuttò a nove anni al Teatro alla Scala di Milano e a tredici divenne prima ballerina assoluta del teatro, interpretando a quella tenera età Giselle. A soli sedici anni fu invitata a Parigi a sostituire Carlotta Grisi nel balletto Betty e fino al 1850 tornò spesso sui palcoscenici parigini. Universalmente conosciuta grazie al virtuosismo tecnico, è descritta dalle fonti dell’epoca come una ballerina forte e resistente a qualunque fatica, un’interprete d’impeto, lontana dello stile romantico: una caratterizzazione che conferma una volta di più le differenze tra le scuole italiane e quelle francesi nell’impostazione dello stile. Nel dicembre del 1848 apparve per la prima volta sulla scena spagnola con Foleto o el diablillo y la aldeana, al Teatro del Circo di Madrid, uno dei teatri più importanti e all’avanguardia di tutto il secolo XIX; vi si fermò due stagioni, condividendo i cartelloni madrileni con la parigina Marie Guy-Stéphan (1818-1873), come abbiamo ricordato all’inizio. Il paragone tra le carriere di queste due danzatrici è molto istruttivo, perché entrambe provenivano da accademie prestigiose e avevano studiato sotto la guida di grandi maestri; la Fuoco, tuttavia, raccoglieva trionfi di prima classe interpretando sempre i ruoli principali e dimostrando le sue capacità tecniche, mentre alla Guy-Stéphan il vero riconoscimento non giunse mai da parte della sua patria, dove fu sottovalutata e dove ricoprì soltanto ruoli secondari. All’inaugurazione del Teatro Real di Madrid nel 1850 la Fuoco comparve nella prima compagnia di danzatori, per poi spostarsi a Zaragoza, Granada e Malaga, e infine tornare in Italia (sono attestate sue apparizioni a Modena e Padova nel 1852, a Milano nel 1853). Forse anche per l’intensità con cui si accostava alle parti, decise di ritirarsi dalle scene quando non aveva ancora compiuto trent’anni; trascorse il resto della sua esistenza vivendo austeramente nella sua villa di Carate Lario (oggi Carate Urio, in provincia di Como), dedicandosi ad attività di beneficenza.
L’eredità lasciata da queste donne alla storia della danza non riguarda soltanto la vita accademica, nel senso di sperimentazioni e innovazioni tecniche, ma abbraccia un valore artistico molto più ampio di quanto non si conosca grazie alle fonti e alla storiografia del balletto: non va dimenticato che esse diedero vita e interpretarono i più grandi ruoli protagonistici del balletto neoclassico e romantico, creando un modello estetico, artistico e gestuale, imponendo quelle tendenze che poi si sarebbero trasferite alla sala di ballo, ossia alla scuola di formazione delle nuove ballerine, perché i risultati del loro lavoro diventassero tradizione e repertorio.
Principali fonti consultate
Paolo Greppi, Emanuele Greppi (eds.), “Lettere politiche dell’abate Casti”, in Miscellanea di storia italiana edita per cura della regia Deputazione di storia patria, Torino 1882.
Laura Hormigón, El Ballet Romántico en el Teatro del Circo de Madrid (1842-1850), Madrid 2017.
Flavia Pappacena, La danza classica. Le origini, Roma-Bari 2009.
Francesco Regli, Dizionario Biografico dei più celebri poeti ed artisti melodrammatici, tragici e comici, maestri, concertisti, coreografi, mimi, ballerini, … in Italia dal 1800 al 1860, Torino 1860.
Lorenzo Tozzi, “Il balletto nel Settecento: questioni generali”, in Musica in scena, V. L’arte della danza e del balletto, Torino 1995, pp. 39-62.
Taddeo Wiel, I Teatri Musicali Veneziani del Settecento: Catalogo delle opere in musica rappresentate nel secolo XVIII a Venezia (1701-1800), Venezia 1897.