Genova, Teatro Carlo Felice, Stagione d’Opera 2021-2022
“ANNA BOLENA”
Tragedia lirica in due atti su libretto di Felice Romani, tratto da “Anna Bolena” di Alessandro Pepoli e da “Henri VIII” di Marie-Joseph Chénier nella traduzione di Ippolito Pindemonte.
Musica di Gaetano Donizetti
Anna Bolena ANGELA MEADE
Enrico VIII NICOLA ULIVIERI
Giovanna Seymour SONIA GANASSI
Riccardo Percy JOHN OSBORN
Edgardo Rochefort ROBERTO MAIETTA
Smeton MARINA COMPARATO
Hervey MANUEL PIERATTELLI
Orchestra e Coro del Teatro Carlo Felice
Direttore Sesto Quatrini
Maestro del Coro Francesco Aliberti
Regia Alfonso Antoniozzi
Scene e Videodesign Monica Manganelli
Costumi Gianluca Falaschi
Coreografia Luisa Baldinetti
Luci Luciano Novelli
Allestimento in coproduzione Fondazione Teatro Carlo Felice e Teatro Regio di Parma
Genova, 27 febbraio 2022
Il rinnovato amore che i cartelloni italiani hanno scoperto per la ponderosa opera donizettiana porta il Teatro Carlo Felice di Genova a mettere in stagione un titolo tra i più felici tra quelli composti dal bergamasco, “Anna Bolena”, fornendolo di una compagine musicale davvero eccezionale. John Osborn è un Percy di indubbio fascino e di vocalità perfettamente belcantistica: il suono è chiaro ed energico, l’interpretazione non teme salti di ottava né gli acuti più impervi, il fraseggio (soprattutto nel secondo atto) si mostra vivo e vibrante, nel rispetto, comunque, dell’identità musicale del ruolo. In stato di grazia, Sonia Ganassi (Giovanna Seymour) è semplicemente se stessa, ossia una delle fautrici della straordinaria stagione mezzosopranile che il nostro panorama musicale ormai da più di un ventennio conosce: la voce è sicura e ben proiettata in tutta l’estensione, l’espressività variegata, la personalità scenica convincente. Marina Comparato è uno Smeton efficace, dal colore caldo e la linea di canto omogenea, e nel complesso rende un’interpretazione più che soddisfacente. Pure l’Edgardo Rochefort di Roberto Maietta spicca per la bella gestione della tessitura baritonale, contraddistinta da un’emissione pulita e ben scolpita. Nicola Ulivieri nella parte di Enrico VIII si applica con la vis a lui usuale, l’uso sapiente del fraseggio, la convincente (per quanto un po’ stereotipata) costruzione del personaggio. Infine, Angela Meade: una struggente Anna Bolena, bene a fuoco su intonazione, fraseggio, canto d’agilità, lirica negli abbandoni più commossi, così come audace ed espressiva nelle invettive drammatiche; e proprio in virtù di questa notevole interpretazione, ben lungi dal fare body shaming e dall’invocare l’”opera glamour”, ma con un sincero intento migliorativo, ci domandiamo cosa potrebbe questa cantante se in scena fosse meno impacciata dalla sua stessa fisicità, conferendo ai personaggi una presenza scenica più naturale. Il maestro Sesto Quatrini si riconferma uno dei migliori direttori under 40 in circolazione: il gesto posato, il grande controllo delle parti orchestrali, l’attenzione a non creare discrasie tra buca e scena sono ormai garanzie di successo per il maestro romano; in questo specifico frangente abbiamo apprezzato la valorizzazione dei fiati (i legni soprattutto), mentre, se una critica gli si può muovere, è quella di non aver azzardato una direzione più personale, quasi eclissandosi dietro alla macerante e dignitosa espressività donizettiana.
Appropriato anche l’apporto del Coro (sempre puntualmente diretto dal maestro Francesco Aliberti), che vocalmente ormai sa farsi presente nonostante le mascherine ancora obbligatorie, e scenicamente si accompagna di buon grado ai movimenti delle figuranti che la regia gli ha affiancato. Ed è proprio la regia, nel senso più ampio del termine, il tasto dolente di questa produzione tanto riuscita: resta sinceramente un mistero quale fossero le effettive intenzioni di Alfonso Antoniozzi quando ha deciso di portare in scena una “Bolena” a cavallo tra Rinascimento e Anni Trenta, con qualche svista seicentesca e ottocentesca (nei costumi curati da Gianluca Falaschi); la scena è occupata da un semplice mobilio mezzo neogotico e mezzo da bar contemporaneo, ma illuminata da proiezioni (ideate da Monica Manganelli) di imperscrutabile significato, che sfiorano il grottesco quando propongono immagini da centro benessere jugendstil che paiono mutuate dall’“Olympia” di riefenstahliana memoria, proprio nella scena che dovrebbe svolgersi (condizionale d’obbligo, a questo punto) in camera di Anna – in un altro momento è l’immagine di tre monoliti neri in un deserto che ci sorprende, tra “2001: Odissea nello spazio” e la copertina di un album rock Anni Novanta. Ad appesantire non poco la confusione scenica ci si mettono anche le arbitrarie coreografie delle figuranti (organizzate da Luisa Baldinetti e, diciamolo chiaramente, non necessarie) e gli apporti specifici della regia di Antoniozzi, come, ad esempio, rinchiudere in una gabbia un doppio di Anna durante la scena della follia, per lasciare la Meade libera di deliziarci dal proscenio come ad un concerto, mentre la danzatrice che impersona il suo doppio si contorce e delira al suo posto. D’accordo la scena di pazzia, ma dovrebbe limitarsi ad un personaggio e al finale, non all’intera concezione dell’opera: giacché fra una Bolena che sviene e non riesce a rialzarsi, maschere neutre sparse qua e là, una Seymour alcolizzata, un Enrico VIII oltremodo gigione e le proiezioni casuali sullo sfondo, solo la musica e il canto potevano salvare la produzione – ed è esattamente quello che è avvenuto, come hanno testimoniato i lunghi applausi a scena aperta e le vere ovazioni finali che il pubblico ha dispensato al cast, specialmente a Osborn e alla Meade.