Oratorio profano in tre parti, 18 quadri, con un Prologo ed un Epilogo, per 12 voci, 7 strumenti e pianoforte, su testo tratto da “Le Roman de Tristan et Iseut” di Joseph Bédier (1938/1941). Prima rappresentazione: Zurigo, Tonhalle, 26 marzo 1942.
La vicenda di questo importante lavoro (diviso in tre parti: “Le philtre”, “La forèt du Morois” e “La Mort”) è tratta dal romanzo “Le Roma de Tristan et Iseut” di Joseph Bédier (1864-1935) e quindi converrà subito, accanto al nome di Martin, affiancare quello di Wagner: il riferimento al Tristan appare inevitabile. Ma il compositore ginevrino ha soprattutto accolto l’insegnamento del Pelléas: si è affermato anzi che Le vin herbé sembra un Tristan rivissuto attraverso il Pelléas. In effetti molte pagine dell’oratorio portano il segno della stagione impressionistica e spesso Martin risponde la stessa ansia di Infinito di Debussy: cambiano soltanto i modi. Anche nel trattare le voci Martin riesce ad offrire un’immagine nuova del debussysmo: fra l’altro il declamato del musicista svizzero ha un disegno ritmico dai contorni più netti. Eppure, in alcune modulazioni di sottile ambiguità tonale, le luci dell’impressionismo si estendono in una dolcezza stremata. L’adozione della tecnica dodecafonica (per esempio una “serie” introduce alla scena in cui Tristano e Isotta bevono il vino “avvelenato”) si fonde con l’influsso della tradizione francese e con l’innegabile suggestione impressionistica, peraltro spoglia di quel post impressionismo ufficiale legato ai nomi dei compositori Gustave Samazeuilh (1877-1967) o Jean Roger-Ducasse (1873-1954) e che oggi sembra alquanto datato. Un “mélange” realizzato con intima consapevolezza, con un gusto è una discrezione veramente esemplari.
In questo oratorio, tutto giocato su una corda sola, ma fatta vibrare intensamente, alcune cadenze di Tristano e Isotta, di Brangania e di re Marco (quanto lontani da quelli wagneriani!) giungono da un’epoca remota. Ci ricordano antiche miniature, o alle vetrate di Chartres, agli artisti di Bayeux. Indubbiamente il Tristan di Martin è quello della tradizione trovadorica, del romanzo cortese. La voce casta e velata dei poeti medioevali è indubbiamente affascinante. Il clima è arcaicizzante, ma senza alcun indugio manieristico. C’è un senso di fissità, di stupore, lontano da ogni enfasi immaginifica; che nulla toglie, ovviamente, alla “presenza” dei personaggi, al loro essere vividi e comunque memorabili. Nell’affrontare un racconto di vasto respiro Frank Martin si è accontentato di un piccolo coro (12 voci miste), di un pianoforte di 7 strumenti ad arco. Il coro ha la funzione dello “storico” come nell’oratorio classico. I personaggi si dilenano, di volta in volta, con un equilibrio controllatissimo. Ritroveremo il tema di Isotta nel primo movimento del Concerto per violino di Martin, dieci anni dopo le Le vin herbé, quasi a riconfermare la validità di una nobile esperienza, non vistosa, ma viva e coerente, fra le più significative del Novecento musicale. Ogni pagina di Martin, nel suo accento segreto e riservato, è una lenta occasione di verità, un infinito pretesto di lettura interiore, che non si esaurisce in un facile azzardo sperimentale.