Trieste, Teatro Giuseppe Verdi, stagione d’opera e balletto 2022
“AMOROSA PRESENZA”
Opera in due atti su libretto di Aisha Cerami e Nicola Piovani
Musica Nicola Piovani
Serena MARIA RITA COMBATTELLI
Orazio MOTOHRU TAKEI
Tata RINAKO HARA (23.01), ALOISA AISEMBERG (29.01)
Tutore WILLIAM HERNANDEZ
L’Albero CRISTIAN SAITTA
Orchestra e coro del Teatro Giuseppe Verdi
Direttore Nicola Piovani
Maestro del coro Paolo Longo
Regia Chiara Muti Scene e costumi Leila Fteita
Light designer Vincent Longuemare
Coreografie Miki Matsuse
Nuovo allestimento della Fondazione Teatro Lirico Giuseppe Verdi di Trieste
Trieste, 23 e 29 gennaio 2022
Amorosa presenza è la prima e per ora unica opera di Nicola Piovani. In origine doveva chiudere la stagione 2019-20, poi l’emergenza sanitaria ha bloccato il debutto, rimandandolo ai primi giorni del 2022. Finalmente, pur con un Covid oltremodo ostinatamente dispettoso, il 21 gennaio il Teatro Verdi ha visto concretizzarsi la messa in scena di questa partitura.
Facciamo prima una premessa importante: erano troppi gli anni che il teatro triestino non allestiva lavori contemporanei. Pareva finito il tempo glorioso in cui i debutti erano annuali ed invece in questa stagione i titoli inediti saranno addirittura due. Un segnale simbolico di rinascita. Non necessariamente solo dal virus. Una delle motivazioni che venivano sventolate per giustificare questa poca attenzione al contemporaneo era che il pubblico non gradiva queste proposte. Che è un modo interessante di vedere la funzione dei teatri: non motori per la formazione, ma “supermercati del già visto”; non propositivi ma ripropositori. Alla faccia di un passato che incombe, minaccioso confronto, su un presente scialbo. Quindi onore al merito, indipendentemente e prima della messa in scena.
Va anche detto che nei confronti del contemporaneo c’è spesso anche un certo lassismo nell’allestimento, che sicuramente non aiuta a raggiungere il consenso.
In tutta onestà, aleggiava il timore della delusione, forse anche perché si aveva il dubbio se la scelta di Piovani fosse realmente legata al valore del musicista o piuttosto al tentativo di far dimenticare, proponendo un nuovo nome altisonante a livello internazionale, le vicende tristi cha avevano accompagnato la presenza al Verdi di Ezio Bosso, prima sbandierato ai quattro venti come direttore stabile residente e poi messo rapidamente all’angolo, senza assegnargli di nessun titolo lirico ma solo qualche occasionale concerto.
La trama, che riassunta, appare inizialmente come un dedalo articolatissimo e poco credibile, riprendeva quella del romanzo di Vincenzo Cerami ed il libretto è scritto dallo stesso Piovani con la figlia dello scrittore, Aisha. Già qui parte la prima serie di amorose presenze: quella dell’amicizia e quella dell’amore filiale. Aver voluto dare corpo, anzi nuove parole, alle frasi scritte dal padre; aver composto delle musiche che accompagnassero il viaggio perenne del compagno d’arte, rendendolo oltremodo immortale, sono già dei racconti di grande poesia. Certo queste considerazioni sono costruzioni delicate, che un eccesso, anche per troppo affetto, od una trascuratezza, magari per comprensibile ansia, potrebbero facilmente frantumare. Ma ogni considerazione si placa quando, in uno di quei rari momenti di pathos autentico, il teatro si ferma alla comparsa in sala del compositore, che si fa nocchiero dell’orchestra. Una battaglia difficile la sua, perché i nuovi spazi per i musicisti, così dilatati, allargano anche il suono che in platea si fa spesso troppo aggressivo, forse anche a causa di un palcoscenico vuoto, che certo non aiuta i cantanti, privati anche di quelle scatole sceniche che li aiutavano a sentire e farsi sentire.
Se il direttore non fosse stato l’autore, si può affermare che, qualche volta, soprattutto alla prima delle due repliche seguite, il suono sembrava un po’ appannato, meno pulito di quanto ci si potesse aspettare. Ciò detto, tornando a Piovani, la musica scorre nelle sue mani con gesti che accarezzano aria e note, creando momenti di coinvolgimento autentico, di tensione, di piacere sonoro e di delicata poesia. Forse si vorrebbe che il Maestro nella sua musica fosse più “nudo”, senza cioè “indossare” delle citazioni, da Mascagni a Strawinskij, ma ciò si collega al fatto che Piovani è uomo dotto, intellettuale preparato ed è logico che renda omaggio ‘amoroso’ ed inconscio alle presenze culturali che lo hanno formato. La creazione di ogni artista è racconto di sé e della sua vita ed il percorso di Piovani non è stato un viaggio solitario. Insomma siamo davanti ad un’opera di passione intensa, che Chiara Muti ha saputo portare in scena con eleganza e soprattutto con un grande rispetto, supportata da delle scene essenziali ma mai banali, firmate da Leila Fteita, dominate da un suggestivo albero che attraversa le stagioni, efficacemente illuminato da Vincent Longuemare . Della vicenda si potevano dare altre letture, puntare alla crisi attuale, alla psicanalisi, al dualismo, ma in questa occasione la regista ha puntato ad una grande prova di misura, di equilibrio ed eleganza, professionale e personale, esaltata dalla forza di essere presente sapendo stare un passo indietro, non marcare il passaggio come fanno troppi suoi colleghi a svantaggio della musica. Un lavoro, quello della Muti, che ha reso chiarissima la trama inenarrabile, ha sciolto le fila di una vicenda che sembrava barocca ed invece si è fatta quotidiana.
Nel complesso adeguata la compagnia di canto, chiamata ad affrontare una situazione di sostituzioni “last minute”. Ha potuto cantare tutte le repliche la protagonista prevista, Maria Rita Combatelli (Serena) giovane ed interessante soprano, che unisce ad un timbro fresco ed accattivante una sicura musicalità. La sua prova cresce nel corso dello spettacolo anche grazie alle ottime capacità teatrali. Il personaggio di Orazio è stato affrontato, con abilità vocale e misura scenica, dal tenore Motoharu Takei. Chiamato a sostituire il collega previsto ha dato prova di grande professionalità, salvando così la produzione. Altra “salvatrice” (ha sostituito in alcune repliche Aloisa Asemberg) il mezzosoprano Rinako Hara (Tata) palesemente alla ricerca del gesto di Piovani. Ha cantato bene la sua aria principale, rinfrancata dall’applauso del compositore, mentre in altri momenti la voce non si sentiva con il necessario volume. Questo non è tanto imputabile allo strumento vocale, sicuro e di buone potenzialità, quanto piuttosto delle caratteristiche dello spazio del palcoscenico, alle volte infido o al già citato rapporto con l’orchestra. Nella recita del 29 gennaio abbiamo potuto ascoltare la prevista Aloisa Asemberg, che indubbiamente mostra un maggior corpo vocale, ma anche dal confronto non si può negare il giusto riconoscimento ad entrambe le cantanti. Apprezzabile il Tutore di William Hernandez. Una voce da baritono che vorremmo riascoltare in un altro ruolo, che gli consenta di mettere in evidenza una maggior varietà espressiva . Corretto il basso Cristian Saitta, che offre la sua voce non particolarmente scura al ruolo dell’albero, una sorta di metaforico coro greco che commenta il dipanarsi della vicenda. Alla fine applausi per tutti, particolarmente convinti per la Combattelli ed autentico e meritato trionfo per Piovani, visibilmente emozionato dalle acclamazioni del pubblico, sempre più numeroso nel corso delle repliche. Foto Fabio Paranzan