Tragedia in quattro atti su libretto di Tito Ricordi, dalla tragedia omonima di Gabriele D’Annunzio. Prima rappresentazione: Torino, 19 febbraio 1914. Primi interpreti: Linda Cannetti (Francesca), Giulio Crimi (Paolo), Francesco Cigada (Giovanni), Giuseppe Nessi (Malatestino).
A Pesaro, nei primi giorni di giugno del 1944 c’era l’inferno. Imperversa la collera dei tedeschi in fuga. Dal cielo i bombardamenti aerei non danno tregua. È il 5 giugno. In un ospedale di fortuna, alla periferia cittadina, muore Riccardo Zandonai. Si dice che l’ultima notizia che gli, moribondo, riuscì a captare fu quella dell’entrata degli alleati a Roma. E, forse, gli alleviò la morte. Immaginiamolo quindi come un estremo conforto di una vita segnata dal dolore. Guardate. Già nel nel 1916, il governo austriaco lo condanna per alto tradimento, distruggendogli la casa di Rovereto; questa volta sono i tedeschi che, nel 1944 lo scacciano brutalmente della sua casa di Pesaro, riducendola in macerie e poi mandarlo a morire lontano dalle sue cose più care. Già questi momenti sono sufficienti a farci capire che l’esistenza di Zandonai fu tutt’altro che serena. Le sue affermazioni? I suoi successi? L’insegnamento che gli impartì Mascagni a Pesaro, quando era studente? La simpatia di Boito ai suoi esordi operistici? Che cosa contano? Zandonai ha sempre pagato – e troppo – di persona, pertanto si può asserire che la sua produzione artistica ha riverberato, quasi a priori, un presagio, un “comportamento” psicologico che, alla fin fine, costituì la veridica sostanza di quello che doveva, poi essere una vita fondamentalmente dolorosa.
Agganciamoci allora a Francesca da Rimini, il suo lavoro più noto e l’unico rimasto in repertorio di un’attività compositiva che copre praticamente 35 anni. Siamo nel 1913. Affrontare un testo di provenienza dannunziana non è certo un ripiego, ne, tantomeno, una manovra di comodo. Vogliamo ricordare quel che scrisse Riccardo Bacchelli a proposito del libretto operistico in genere? “La qualità migliore della poesia per il melodramma si deve cercare nell’invenzione dei fatti, nelle situazioni in cui o la parola tace, o vi si ripete e vi si perde”, fatta sillaba per le voci, nella musica “. Come dire tutto quanto non può offrire l’ispirazione dannunziana e l’apporto concreto della medesima. Per la storia, ricordiamo che Zandonai e D’Annunzio si videro tre volte soltanto, tutte e tre a Parigi attorno al 1913.
Nell’ultimo incontro il musicista sottopose al poeta il dramma musicale ultimato. Eesecuzione pianistica – rapida e sommaria – alla quale D’Annunzio reagì con grande soddisfazione. Bisogna però constatare che Zandonai, trentenne, ha saputo attutire le grevi, ripetute insistenze del ritmo poetico originario, ne ha alleggerito e snellito i “momenti” determinanti, imprimendo alle vicende un costante sentimento di fievole e maliosa malinconia che è, in fondo, il nodo effettivo del suo linguaggio artistico, del suo modo di fare musica. Nella Francesca di Zandonai affiora freschezza e un poetico fervore che nella Francesca di D’Annunzio appare mortificato dalla pletorica retorica del suo linguaggio. Quando si trova l’espressione di una rassegnata rinuncia amorosa il canto fiorisce e s’impone suadente. È un canto intenerito e pudico, commosso ma riservato, soave ma dignitoso che si insinua che ci insinua il ricordo nostalgico per una felicità apparsa ma non vissuta, soppesata ma non provata. Come quella che vibra nello stupefatto è stupefacente finale del primo atto che era iniziato con il dialogo tra la protagonista e Samaritana., o ancora nel mesto commiato del quarto atto, tra Francesca e Biancofiore. È un ricordo nostalgico che preferisce alla sensualità la tenerezza. Al desiderio di vivere, l’ombra della precarietà e dell’angoscia. È un’atmosfera di afflitto smarrimento e di sbigottito presagio che da Francesca calerà poi, via via, in altri momenti, soprattutto ne I cavalieri di Ekebù e in Giuliano. Una espressione di dolorosa pietà, insomma, da parte dell’artista, per se stesso e per noi.