Reggio Emilia, Teatro Valli: “Carmen”

Reggio Emilia, Teatro Valli, Stagione d’Opera 2021-22
“CARMEN”
Opera in quattro quadri su libretto di Henri Meilhac e Ludovic Halévy, tratta dalla novella omonima di Prosper Mérimée.

Musica di Georges Bizet
Carmen RAMONA ZAHARIA

Don José AZER ZADA
Micaëla VERONICA MARINI
Escamillo ALESSANDRO LUONGO
Remendado SAVERIO FIORE
Dancairo ARMANDO GABBA
Zuniga MASSIMILIANO CATELLANI
Moralès GIANNI GIUGA
Frasquita 
ANNA MARIA SARRA
Mercédès CHIARA TIROTTA

Orchestra dell’Emilia Romagna “Arturo Toscanini”
Banda dell’Orchestra giovanile della via Emilia
Coro e Voci Bianche del Teatro Regio di Parma
Direttore Jordi Bernacer
Maestro del Coro Martino Faggiani
Maestro delle Voci Bianche Massimo Fiocchi Malaspina
Regia Silvia Paoli
Scene Andrea Belli
Costumi Valeria Donata Bettella
Luci Marcello Lumaca
Video Francesco Corsi
Coreografie Carlo Massari/ C&C Company
Nuovo Allestimento Coproduzione Fondazione Teatro Regio di Parma e Fondazione I Teatri di Reggio Emilia
Reggio Emilia, 30 gennaio 2022
Quanto si è scritto e quanto si è detto su “Carmen”! L’opera di lingua francese più famosa del mondo deve senz’altro parte della sua celebrità all’incredibile pubblicità che le fece Nietzsche, presentandola come il baluardo dell’anti-wagnerismo, ma, va detto, l’opera che noi oggi vediamo messa in scena nei nostri teatri poco ha a che fare con l’opéra-comique di quasi cinque ore che il filosofo vide: i dialoghi vengono tagliati, per lo più, e i restanti sono diventati recitativi “all’italiana”, giacché difficilmente oggi il pubblico del Belpaese sopporterebbe uno spettacolo in francese di tale lunghezza – poco importa che si dimezzi non solo l’estensione, ma anche l’effettiva comprensione dei personaggi nati dalla sensibile penna di Mérimée. Insomma, detto fuori dai denti: la versione di “Carmen” che mettiamo comunemente in scena è un adattamento tutto orientato alla prodigiosa musicalità dell’opera a totale discapito del libretto. Tuttavia, imprevedibilmente, questo non è necessariamente un male: in questo modo la “Carmen” italienne diventa il testo ideale perché i registi si mettano alla prova, trovando ampio spazio per costruire nuove drammaturgie – come ci hanno mostrato tutti gli “scandalosi” dei nostri tempi, da Calixto Bieito a Emma Dante, passando per Leo Muscato (che addirittura invertì il finale, facendo di Carmen l’assassina di Don Josè). Silvia Paoli, ormai affermata regista nostrana, non fa eccezione: la sua è senz’altro una “Carmen“ non convenzionale, pensata come una lunga analessi nel pensiero di Don Josè, che, imprigionato per l’omicidio della bella gitana, rivive tutta la sua storia, tra incubi che prendono la forma di spose inquietanti, le visite di una virtuosa quanto pedante Micaëla, le angherie dei secondini (suoi ex colleghi) e l’ardente, inestinguibile ricordo di Carmen stessa, creatura di pura peccaminosa conturbanza, che come un diavolo tentatore cerca di rigettarlo nella disperazione della passione non ricambiata, e dunque dell’istinto omicida. Questa vicenda è ambientata negli anni Sessanta, anni di liberazione sessuale, ma anche degli ultimi fuochi del più acrimonioso bigottismo: lo shift temporale non è reso solo dai costumi (semplici e ben confezionati da Valeria Donata Bettella), ma anche da riferimenti culturali specifici, come riviste, balli simili ad allucinati shake (merito del suggestivo progetto coreografico di Carlo Massari), interpretazioni canore à la Studio Uno, pochi elementi che, tuttavia, riescono appieno nel ricreare un’atmosfera rarefatta e simbolica, quasi vicina all’universo lynchano; le scene di Andrea Belli, contraddistinte da pareti ortogonali monocrome e linee sobrie, in contrasto con il rutilare del cast, contribuiscono a questa sensazione sospesa, quasi gelida; infine, il largo uso di figuranti – cifra stilistica della Paoli – implementa senza dubbio le risultanze sceniche sia degli interpreti che del coro, creando un insieme omogeneo e tutto ben caratterizzato. Sul piano musicale, senz’altro spicca la direzione di Jordi Bernacer, che non teme di conferire una personalità propria a questa “Carmen”: dinamiche incalzanti, agogiche graffianti, ma anche diversi momenti di vero lirico languore, il suo è un dramma di amore e morte, colori solo a tinte forti, che mescola sapientemente anche quando la partitura sembrerebbe essere meno azzardata. Dai cantanti chiede e ottiene il massimo, in particolar modo da Ramona Zaharia nel ruolo eponimo, mezzosoprano di ragguardevole e omogenea estensione, dalla tecnica ben consolidata, bella linea di canto, dizione scandita, piacevoli accenti di memorie quasi jazz. Supportata da un indubbio physique du rôle, il mezzosoprano romeno costruisce una Carmen iperseducente, ma mai languida, bollente senza essere dolciastra, spregiudicata, anche vocalmente: momenti apicali della sua performance non tanto la celebre habanera, quanto la chanson bohème (Les tringles des sistres tintaient), ove il cast nella sua interezza si scatena come per un rock and roll, e senza dubbio l’arioso lugubre e sensuale dell’atto terzo (En vain pour éviter les réponses amères). Le fa da contraltare Azer Zada nel ruolo di un Don Josè quasi adolescenziale, dai tratti grotteschi e i repentini attacchi violenti: un pericoloso uomo medio, pronto a votarsi tutto all’angelica Micaëla, per poi perdere reputazione e dignità dietro alla torbida Carmen; anche vocalmente la freschezza di Zada, che non teme il canto aggraziato, a scapito però di una più ruspante virilità, si accompagna perfettamente a questa visione del personaggio,  bidimensionale. Pure l’Escamillo di Alessandro Luongo dopo un inizio  prudente, trova una buona linea espressiva nell’atto terzo, supportata dall’immediata musicalità di cui il baritono pisano è dotato; fra i ruoli di lato spiccano senz’altro quelli con i quali si creano i più interessanti momenti di insieme, ossia il Dancairo e il Remendado di Armando Gabba e Saverio Fiorecaratterizzati vocalmente al punto giusto, ma forse scenicamente un po’ opachi – e soprattutto la Frasquita e la Mercédès di Anna Maria Sarra e Chiara Tirotta, cantanti dalle robuste vocalità, che nella scena delle carte del terzo atto si pongono giustamente in pieno contrasto con la cupa Carmen. Infine merita un particolare plauso Veronica Marini, che costruisce una Micaëla misuratissima, dalle venature cristalline, forse un po’ impacciata scenicamente – come anche questa regia richiede, dato che fa della fanciulla una brava ragazza borghese scialba e sine nobilitate – che, però, sfodera una certa personalità espressiva nell’aria “Je dis que rien ne m’épouvante”, interpretata con impressionante cura del fraseggio e trasporto. Pregevoli gli apporti dei cori del Teatro Regio di Parma – ben istruiti dai maestri Martino Faggiani e Massimo Fiocchi Malaspina – che si sono prestati alle molte prove scenico-coreografiche presenti. Un generale successo sancito anche da lunghi e calorosi applausi, benché il pubblico più âgé negli intervalli non abbia risparmiato aspre critiche all’impianto non tradizionale della drammaturgia, parlando di “opera irriconoscibile”. Noi preferiamo pensarla come Catullo: rumoresque senum severiorum/ omnes unius aestimemus assis! Foto Roberto Ricci