Novara, Teatro Coccia – Stagione di Prosa 2021-22
“UN TRAM CHE SI CHIAMA DESIDERIO”
Dramma in tre atti di Tennessee Williams Traduzione di Masolino d’Amico
Blanche MARIANGELA D’ABBRACCIO
Stella GIORGIA SALARI
Stanley Kowalsky DANIELE PECCI
Mitch EROS PASCALE
Eunice ERIKA PUDDU
Steve GIORGIO SALES
Pablo/ Un giovane MASSIMO ODIERNA
Adattamento, regia e scene Pier Luigi Pizzi
Musiche Matteo D’Amico
Luci Luigi Ascione
Produzione GITIESSE artisti riuniti diretta da Geppy Gleijeses
Dal 16 al 27 febbraio al Teatro Franco Parenti di Milano. Da qui altre date della tournée
Novara, 29 gennaio 2022
In un’ipotetica École des Maîtres del teatro italiano non può senz’altro mancare la magnifica lezione di stile che Pierluigi Pizzi oggi ancora può insegnare alla maggior parte dei metteur-en-scène nostrani – e si noti l’uso del francesismo, giacché Pizzi non è un semplice regista, ma un vero ideatore della scena in ogni sua componente: assistere a un suo spettacolo, sia esso di opera o di prosa, produce sempre un estetico godimento, che spesso scivola nel gelido, perfino nel cerebrale. Il “Tram che si chiama desiderio” che sta recentemente e con successo girando per i teatri italiani, non fa eccezione: la scena è concepita magistralmente, non si potrebbe pensare di appoggiare uno spillo senza che sembrasse superfluo, fuori posto; le linee sono pulitissime, le cromie decise e significative; le luci di Luigi D’Ascione splendidamente glaciali, con l’uso di suggestivi tagli ad accentuare il contrasto buio-luce che non regge solo questo testo, ma buona parte dell’intera drammaturgia di Williams; i costumi, pur aderendo a una scelta di modernità inizialmente disorientante, sanno in realtà profilarsi come senza tempo. Il lavoro sugli attori, infine, risulta adeguato, benché talvolta eccessivamente manierato – mani alla fronte per momenti di pianto, gesti deittici un po’ scontati, recitazione a tratti opacamente accademica: è chiaro che ci troviamo di fronte a un approccio tradizionale, ma questo, applicato a un testo di Williams, non è necessariamente un male, giacché pochi sono i testi in cui il drammaturgo statunitense gioca con le forme espressive e con le tecniche sperimentali, e il “Tram“ non rientra certo in questo novero; le emozioni devono stare costantemente a fior di pelle, ed è evidente che l’intero cast sia stato ben orientato in questa direzione. Saggia è stata anche la scelta della traduzione di Masolino D’amico e dell’adattamento del testo (a cura dello stesso Pizzi), con pochissimi omissis e senza timore di un parlato schietto, fin turpiloquente, ben misurato sulla dimensione dell’oralità, più che sulla trasmissione del valore letterario (anche perché il testo in questione già ha di per sé un’iconicità, una tale potenza espressiva, che difficilmente perderebbe valore in alcun caso). Il cast di una produzione tanto ben congegnata non può certamente essere meno che dignitoso, e va detto che in generale lo spettacolo è ben recitato (con i vizi su cui già ci siamo espressi), in alcuni momenti riesce persino a strappare una lacrima, o un batticuore; tuttavia è giusto riconoscere a Giorgia Salari, nella parte di Stella, e a Eros Pascale, nella parte di Mitch, le interpretazioni più riuscite: entrambi questi interpreti, infatti, hanno conferito grande naturalezza ai loro ruoli, che è stata un po’ la cifra mancante nei loro colleghi; Mariangela D’abbraccio è una Blanche certamente affascinante, ma talvolta più concentrata nel dire la parte piuttosto che nel significarla, denudarla: la recitazione prevedibilmente un po’ passé della D’abbraccio ben si accorda al tenore del personaggio, ma potrebbe impreziosirsi di una più approfondita gamma espressiva, specialmente nel primo atto, accompagnando il pubblico alla scoperta del devastante passato e inesistente futuro di Blanche, al posto che renderglielo palese dopo i primi dieci minuti. Daniele Pecci, dal canto suo, è uno Stanley decoroso, senza però alcun guizzo di particolare fascino: anche qui, il personaggio è ordinario, basico, ma questo non significa che l’attore debba appiattire il ruolo, e un esempio, certo irraggiungibile quanto lampante, è la celebre interpretazione del ventiseienne Marlon Brando, che ha esplorato tutto il lato fanciullesco e selvatico di Stanley Kowalsky, oltre che quello cinico e animalesco. Ricordiamo Daniele Pecci in una deliziosa interpretazione de “La morte della Pizia” di Dürrenmatt, dove forse poteva concedersi maggiore attenzione al testo e un focus minore sulla comunicazione di una virilità senza dubbio ruspante, ma un po’ posticcia, specialmente nell’uso della voce, eccessivamente roca e ingrugnita. Il resto del cast regala interpretazioni funzionali alla scena e alla vicenda, senza exploit né eccessive cadute di stile. La fruizione da parte del pubblico (che a Novara è stato di un’imbarazzante senilità, considerata anche la freschezza del dramma e della messa in scena) è comunque sempre garantita, benché nella sua totalità lo spettacolo fatichi a superare il valico della semplice credibilità e a offrirsi come un’esperienza coinvolgente. Peccato.