Napoli, Teatro San Carlo: “Aida”

Napoli, Teatro di San Carlo, Stagione d’opera e danza 2021/22
“AIDA”
Opera in quattro atti su libretto di Antonio Ghislanzoni
Musica di Giuseppe Verdi
Aida LIUDMYLA MONASTYRSKA
Radamès STEFANO LA COLLA
Amneris AGNIESZKA REHLIS
Amonasro FRANCO VASSALLO
Ramfis NICOLAS TESTÉ
Il Re d’Egitto MATTIA DENTI
Una Sacerdotessa DÉSIRÉE MIGLIACCIO
Un Messaggero RICCARDO RADOS
Orchestra, Coro e Balletto del Teatro di San Carlo
Direttore Michelangelo Mazza
Maestro del Coro José Luis Basso
Regia Mauro Bolognini, ripresa da Bepi Morassi
Scene Mario Ceroli
Costumi Aldo Buti
Luci Fabio Barettin
Coreografia Giovanni Di Cicco
Napoli, 20 febbraio 2022
Certi amatori d’opera, si sa, pretendono che “Aida” sia declassata a teatro di burattini. Nella Società dello Spettacolo (Guy Debord docet), “Aida” dev’essere mutata a prodotto di consumo, e così l’ascoltatore – quello lì del “Signora mia, povero Verdi!…” –, s’assicura la sopravvivenza di ciò che resta della tradizione. Una volta, al San Carlo (sul trono sedeva Carlo di Borbone), riuscirono ad introdurre, per un “Alessandro nell’Indie” del Metastasio, un elefante… la cui carcassa, adesso, riposa nel Museo Zoologico della Federico II; carcassa che, idealmente, può rappresentare ciò che resta degli allestimenti “tradizionali”. I più si sarebbero accontentati anche d’una riproduzione in cartapesta… ma, nulla: stavolta, niente elefante!… e niente colonne papiriformi, niente capitelli decorativi, niente palme… niente! sei sfingi soltanto – e in legno monocromo – a rappresentare tutto l’antico Egitto. La semplicità dell’allestimento, con scene di Mario Ceroli, era quella d’una deserta terra d’un Medio Oriente: Menfi era tutta lì: sopra di una piattaforma (anch’essa in legno) agivano il Re, sua figlia, sacerdoti, funzionari e capitani; sotto di essa, e sul proscenio, popolo e schiavi. Trovata un po’ didascalica, certo… però, la regia – quella di Mauro Bolognini, ripresa da Bepi Morassi – ha consentito di pervenire alla formazione d’una buona “Aida” attraverso una scattante sequenza d’immagini; i moti delle anime dei personaggi vengono esteriorizzati in azioni tanto drammatiche, veementi, enfatiche: reazioni così son possibili soltanto nella follia o nei sogni. Da un lato, dunque, la regia punta alla soddisfazione delle esigenze della drammaticità della verosimiglianza verdiana; ma, dall’altro lato, trasporta l’opera sul piano d’una realtà artistica, cogliendone le contraddizioni, le inverosimiglianze, le convenzioni, tutte insite nel processo della formazione d’un melodramma. Ciò accade soltanto nelle pellicole di Pier Paolo Pasolini. Non è inutile ricordare che Bolognini realizzò film su sceneggiature di PPP; e l’influenza pasoliniana s’avverte anche sui costumi di Aldo Buti, i cui copricapi conici e le cui mantelle dalle forme squadrate sembrerebbero fare eco ai costumi indossati dagli scribi e dai farisei nel “Vangelo secondo Matteo” del Pasolini. Anche le luci di Fabio Barettin parrebbero d’ispirazione pasoliniana: conferendo plasticità ad immagini e figure, consentono ad esse d’apparire come staccate, scrostate dal fondo d’un quadro cinquecentesco. Un allestimento, dunque, all’insegna dell’antistoricismo. Dell’antico Egitto, resta – finalmente! – soltanto l’alone, rappresentato, ed ogni tanto ravvivato, dalle coreografie di Giovanni Di Cicco: danze di sacerdotesse, ancelle e schiavetti che il Corpo di ballo, preparato da Clotilde Vayer, ha ottimamente eseguito.
Alla testa dell’Orchestra del San Carlo, Michelangelo Mazza. Sarebbe ingeneroso, adesso, non ricordare la lamentosa bellezza degli strumentini nei temi strumentali, la fierezza marziale delle arpe e delle trombe egiziane o l’esotico mormorio degli archi… ma, la musica s’è totalmente assoggettata alla concitante concatenazione dei fatti. Da un lato, ciò ha evitato il verificarsi d’una sua prepotente intromissione nello sviluppo dell’intreccio e nel progresso dell’azione; ma, dall’altro lato, ciò non le ha consentito di partecipare creativamente alla formazione ed alla costruzione dell’evento musicale: la musica, dunque, non ha potuto svolgere la sua funzione drammatica, essendosi limitata a commentare ciò che accadeva sulla scena e decidendo d’assecondare soltanto l’esteriorità decorativa e spettacolosa dei concertati. Concertati in cui il Coro, preparato da José Luis Basso, ha magicamente trionfato. E l’averlo posto sul proscenio, l’ha fatto anche emergere maggiormente.Nel ruolo eponimo, il soprano Liudmyla Monastyrska che si giova d’una duttilità di recitativo e d’una pieghevole, affettuosa ed omogenea linea del canto, le cui funzioni espressive paiono servire ottimamente, e in tutto e per tutto, all’azione e alla tormentosa situazione di perplessità della sua Aida, manifestatasi nella concitante Scena dell’Atto I “Ritorna vincitor!…” e nella supplichevole, larga e struggente preghiera “Numi, pietà!” (con quei pianissimi così pregni d’emozione…); mirabile, poi, anche il duetto “Rivedrai le foreste imbalsamate” (Atto III) in cui, per varietà e profondità d’espressioni, s’è distinto anche il baritono Franco Vassallo (Amonasro). Del tenore Stefano La Colla, invece, convince l’efficacia e l’espressività del suo recitativo, che ha adempiuto l’esatta sua funzione teatrale, consentendogli, così, di garantire al suo Radamès quel piglio guerresco e pomposo degno d’un condottiero – e ciò s’evince nel recitativo (“Se quel guerrier io fossi”, Atto I) che precede la sua aria di sortita. Ma, proprio qui, in “Celeste Aida”, il pathos appare un po’ troppo vago… vaghezza che ha interessato anche la padronanza della tessitura acuta. Al di là, poi, delle questioni meramente filologiche (il conclusivo si bemolle acuto intonato a voce piena e, giunto alle parole “vicino al sol”, egli smorza l’emissione verso un pianissimo, destando così delle perplessità). Sopra tutti, svetta il mezzosoprano Agnieszka Rehlis. Ella punta l’intera sua interpretazione su un sapiente gioco d’equilibri tra i vari elementi che concorrono alla formazione del ritratto d’Amneris, mostrando, dunque, soltanto quel tanto d’amore possibile ad una donna affabile, ma altera e potente. Un timbro dalle robuste tinte brunite ed un diligente controllo dei vari piani del registro vocale consentono alla cantante d’affrontare appropriatamente la Scena del giudizio dell’Atto IV, in cui riesce a scagliare, con sentita profondità, il suo anatema contro i sacerdoti. Ottime, inoltre, le prove vocali e teatrali di: Nicolas Testé (Ramfis) e Mattia Denti (il Re d’Egitto), entrambi fieri ed alteri; Désirée Migliaccio (Una Sacerdotessa); Riccardo Rados (Un Messaggero). Foto Aliaksei Zuyeu