Oratorio in tre parti per soli, coro e orchestra su libretto di Thomas Morell. Prima rappresentazione: Londra, Covent Garden, 26 febbraio 1752
Forse più di ogni altro genio musicale, Handel realizza nella sua opera immensa la perfetta conciliazione fra numero e qualità. altrettanto prolifico quanto espirato, e gli ha forse lasciato la più alta cifra di capolavori in senso assoluto, e in questa luce non si può dar torto a Beethoven quando affermava che “egli è il più grande di tutti noi”.In opere come “Giulio Cesare”, “Rinaldo” o “Serse” non vi sono zone vuote, né cadute di ispirazione e, quel che più colpisce, neppure pagine di routine in questi melodrammi, oppure estremamente con passati e ubbidienti ai canoni e convenzioni dell’opera seria italiana.
L’oratorio merita un discorso diverso, trattandosi del genere peculiare a Haendel che in fondo lo “inventò” sotto la pressione delle circostanze. L’oratorio haendaliano è, infatti, solo apparentemente “figlio” dell’oratorio sacro, alla Carissimi; in realtà ha i connotati dell’opera, dalla quale si distingue per una sua forza intrinseca spostata, si direbbe, dalla scena con le sue suggestioni, vere o false, alla musica stessa. Èinevitabile che in questo processo di trasferimento siano privilegiati i cori. Haendel ne scrisse una trentina, quasi tutti in età matura, in seguito al fallimento della sua impresa teatrale, per pure necessità di sopravvivere attraverso spettacoli musicali che richiedessero allestimenti meno costosi.
Tali sono dunque gli oratori, opere in “borghese”, senza scena, senza movimento visivo. Tutta la vita del testo tutta la dialettica del sentimento è assorbito dalla musica, il cui potere espressivo deve essere perciò infinito. In ogni oratorio Haendel rinnova il miracolo: non un brano, nella successione di arie, recitativi, ariosi, cori, arie con coro, è al di sotto dei livelli normali della ispirazione dell’autore del “Messiah”. Tutto è originale, nuovo, e tutto porta il segno di un inconfondibile stile. Queste osservazioni si applicano al “Judas Maccabeus”, come a “Israel in Egypt”, a “Saul”, come a “Samson” -per spigolare tra gli oratori più rappresentativi – e sono non meno pertinenti. L’ultimo della serie, questo “Jephthe”, scritto nel 1751 e più volte interrotto a causa della cataratta che progressivamente affliggeva il musicista e che lo portò alla fine alla cecità completa.
“Jephthe” anzi rivela spettacolarmente, nella predominanza delle arie per soprano, uno slancio e una freschezza incredibili in un compositore fisicamente tanto provato. Al posto di Carissimi, il cui “Jephthe” è immerso in un’atmosfera di melanconia mortale adeguata al dramma del condottiero che per rispettare la promessa fatta Dio è obbligato immolare la figlia prediletta, Haendel posta l’accento sulla giovinezza immortale della fanciulla, i cui numerosi interventi nel corso dell’opera sono accompagnati da melodie dei violini veramente angeliche. Ma anche l’ossatura di questo estremo capolavoro haendeliano è di una robustezza che non ha nulla da invidiare neppure al “Messiah”, al quale del resto “Jephthe” si può più che mai accostare. I cori sono portentosi nella loro scansione massiccia che ricorda il celebre “Alleluia”, l’orchestra è, qua e là, ravvivata dal possente suono delle trombe, le forme piu austere (fuga) o più galanti (Minuetti) sono fuse nel discorso rispettivamente corale o strumentale con una tale abilità che il racconto è vivace e non ristagna nelle secche dell’accademismo.