Venezia, Teatro La Fenice, Stagione Sinfonica 2021-2022
Orchestra del Teatro La Fenice
Direttore Charles Dutoit
Maurice Ravel: “Ma Mère L’Oye”, suite in cinque quadri; Wolfgang Amadeus Mozart: Sinfonia n. 39 in mi bemolle maggiore kv 543; Claude Debussy: “Prélude à l’après-midi d’un faune”; Igor Stravinskij: “L’Oiseau de feu” (L’uccello di fuoco), suite, versione 1919
Venezia, 15 gennaio 2022
Da sempre i più prestigiosi direttori d’orchestra, a livello internazionale, si avvicendano alla guida dell’Orchestra del Teatro La Fenice. Tra le più apprezzate bacchette sbarcate a Venezia mancava quella di uno storico maestro dell’arte direttoriale, tutt’ora attivissimo, pur avendo superato le ottantacinque primavere; un insigne interprete, in particolare, del repertorio francese e russo del primo Novecento, che ha avuto il privilegio di seguire da vicino direttori del calibro di Ernest Ansermet ed Herbert von Karajan. Ci riferiamo a Charles Dutoit, nativo di Losanna, recentemente nominato direttore ospite dell’Orchestra Filarmonica di San Pietroburgo, l’ultima delle numerose compagini sinfoniche, con cui ha avuto rapporti continuativi nel corso della sua ormai lunghissima carriera. Finalmente il maestro elvetico è approdato alla Fenice per affrontare un dovizioso programma, che spaziava dall’ultimo Mozart al primo Stravinskij, comprendendo anche Ravel e Debussy.
Il concerto si è aperto con Ma Mère l’Oye di Maurice Ravel, trascrizione per orchestra, risalente a 1911, dell’omonima suite per pianoforte a quattro mani (1908), ispirata a cinque fiabe francesi del Sei-Settecento e dedicata ai piccoli Mimie e Jean Godebski, figli di amici dell’autore. Dalla suite Ravel trasse anche un un balletto in cinque quadri, rappresentato per la prima volta a Parigi nel 1912. Fin da questo primo brano Dutoit ha affascinato il pubblico e dominato la scattante e sensibilissima compagine orchestrale, grazie alla chiarezza del gesto direttoriale, essenziale e nel contempo generoso, che sottolineava ogni aspetto della partitura, accompagnava ogni intervento solistico o di una determinata sezione dell’orchestra, valorizzando le peculiarità della scrittura raveliana, che ottiene il massimo effetto pur con mezzi alquanto limitati (la versione pianistica originale è pensata per esecutori dalla piccole mani e dalla tecnica non trascendentale). Ne è derivata una lettura di questa pagina – che raramente fa ricorso alla piena compagine strumentale – estremamente ricca e variegata, valorizzando appieno gli aspetti peculiari di una rivisitazione del mondo fiabesco e infantile, che avviene con un atteggiamento estraniante, attraverso meccaniche figurazioni ritmiche, rigidi metri di danza, esotiche sequenze pentatoniche come a prenderne le distanze con più o meno garbata ironia.
Seguiva la Sinfonia in mi bemolle maggiore n. 39 KV 543 di Wolfgang Amadeus Mozart, che appartiene all’estrema stagione creativa di Mozart, essendo nata nell’estate del 1788; primo titolo di una ideale trilogia costituita dalle ultime tre sinfonie, scritte in una pausa di quiete all’interno di una situazione esistenziale difficile. Analogamente autorevole si è rivelato il maestro svizzero nell’interpretazione di questo straordinario lavoro sinfonico, di cui ha messo in luce i tratti classicamente viennesi – non ultimi gli aspetti coloristici e le “sorprese”, che fanno pensare ad Haydn – al pari della nuova sensibilità romantica. Così nel primo movimento, dopo l’Adagio che ha introdotto l’ascoltatore in un mondo assolutamente romantico, gli interventi degli archi dalle sonorità piene ed il piglio vigoroso (siamo nel successivo Allegro), hanno rievocato l’aura gioiosa del sinfonismo viennese, ben presto spazzata via dal secondo tema pensoso e raccolto, che dà l’avvio ad uno sviluppo serrato e carico di contrasti drammatici, fino alla conclusiva luminosa fanfara degli ottoni. Nell’Andante, analogamente, si sono avvicendati due climi contrastanti: il carattere giocoso tipico dei divertimenti mozartiani e l’appassionato fervore della parte centrale.
Ritmi energici hanno animato il Minuetto con l’intermezzo del Trio, caratterizzato dalla dolcezza del clarinetto che dialoga con il flauto. Il Finale si è caratterizzato per l’impetuoso sviluppo dei due temi principali, che si assomigliano fino a confondersi.
Dopo questa parentesi tardo settecentesca era di nuovo in programma una composizione francese: il Prélude à l’après-midi d’un faune di Claude Debussy, che rappresenta una sorta di manifesto del simbolismo musicale, ispirato ad un’egloga di Stéphane Mallarmé, dove in un paesaggio pagano e antico, un fauno, appena svegliatosi dal sonno pomeridiano, ricorda le sue avventure con le ninfe, avvenute la mattina nel bosco, e riflette sul suo intimo rapporto con la natura, che sente vivere attorno a sé. Anche in questo brano celeberrimo – per il quale lo stesso Mallarmé, dopo qualche perplessità, dichiarò il suo gradimento – Dutoit ha brillato per finezza interpretativa e cura del suono, ad esprimere l’atmosfera incantata, soffusa di languida sensualità, che caratterizza la partitura di Debussy: un assoluto capolavoro, un vero miracolo di equilibrio e trasparenza, che si snoda senza seguire la sintassi armonica tradizionale, dando libero sfogo alla creatività del compositore. Ancora una volta è emerso in tutto il suo fascino il parametro timbrico, chiave di volta della futura musica novecentesca.
I variegati colori dell’orchestra, oltre al ritmo, sono stati, altresì, protagonisti nella Suite n. 2 da L’Oiseau de feu, il balletto che impose Stravinskij, allievo di Rimskij-Korsakov, all’attenzione del mondo intero, grazie all’esecuzione realizzata a Parigi nel 1910 da Sergej Djagilev. La musica si ispira all’esempio rimskiano in particolare al Gallo d’oro, l’ultima opera del maestro, che si sviluppa tra melodie diatoniche di impronta popolare e di cromatismi e arabeschi dal sapore orientaleggiante. Ma esiste nel balletto una cifra distintiva già tutta stravinskiana, data dall’assenza di ogni sentimentalismo o descrittivismo e da un uso oggettivo del materiale musicale, di cui si esaltano le potenzialità coloristiche e, soprattutto, ritmiche; queste ultime con una libertà e un’inventiva, che già fanno pensare al Sacre: dalla “magica” Introduzione, con i suoi colori lividi, il cromatismo dei fiati e il misterioso glissando degli archi, alla Danza dell’Uccello di Fuoco, giocata su ritmi irregolari, alla popolaresca Danza delle principesse, alla Danza infernale del re Katschej, dove troviamo quegli scarti ritmici, che prefigurano il Sacre du printernps, all’incantata Berceuse, al grandioso climax del Finale, basato su un tema lituano. Successo caloroso per il direttore e l’orchestra.