Milano, Teatro alla Scala: “La Bayadère” – Un approfondimento sulla coreografia

Credo che, a latere, per comprendere appieno il perché di questo spettacolo in scena in questi giorni alla Scala, vada spesa qualche parola proprio sulla coreografia, che non è mai stata rappresentata al di fuori dell’Opera di Parigi fino ad ora, e si deve ringraziare Manuel Legris – il nuovo direttore del Corpo di ballo – e la Fondazione Nureyev per questa occasione. Petipa, il creatore di questo balletto, non credeva in toto nella trascrizione coreografica, e asseriva che lui stesso riallestiva i suoi balletti in maniera diversa ogni volta; e che così avrebbero dovuto fare tutti i coreografi di genio, adeguando le composizioni secondo la propria fantasia e gusto, nonché alle conquiste tecniche dei ballerini. Detto ciò, possiamo affermare che proprio in questo spirito di Petipa sembra collocarsi la storia della Bayadère: a partire dall’anno della Prima, nel 1877, lo spettacolo conta molte riprese differenti, tagli, ricuciture, aggiunte più o meno evidenti e quant’altro si possa immaginare, le quali arrivano anche a modificare nella sostanza la drammaturgia del balletto. Mi riferisco, ad esempio, all’aggiunta, negli anni ‘50, della variazione dell’Idolo d’Oro, talmente iconica che sembra abbia sempre fatto parte dello spettacolo; oppure al taglio di netto del IV atto (il crollo del tempio a causa dell’ira degli dei), risalente a una messa in scena del 1920 da parte del Kirov (nome sovietico dei Teatri imperiali russi di San Pietroburgo, dove ha lavorato per tutta la vita Petipa), e i cui motivi sono oscuri. Da quell’anno in poi, comunque, il quarto atto non fu più rappresentato dal Kirov, nemmeno nella coreografia che divenne la base per tutti gli spettacoli successivi, quella del 1941 di Chabukiani e Ponomarëv. Questo del IV atto è comunque un tema, a mio avviso, molto più importante di quanto possa sembrare. Cambia la concezione, in primis, estetica: terminare con il Regno delle ombre vuol dire che non è necessaria altra danza, dopo gli alti vertici di questo atto: è un’apoteosi non solo dell’amore dei due protagonisti, ma della danza in sé. Per converso, vuole anche dire un differente sviluppo drammaturgico, e quindi influenzare anche le possibili sfumature interpretative che i ballerini principali possono dare al loro personaggio. Un conto è terminare il balletto con un finale onirico, in cui Solor rinnova la promessa d’amore alla sua Nikiya nel Regno delle ombre, il quale non è altro che il suo mondo dei sogni, da cui non sapremo mai se si ridesterà; altro fatto è invece rappresentare quello stesso guerriero ridestarsi, scoprire d’aver solo sognato di aver tenuto fede al giuramento fatto a Nikiya davanti al fuoco sacro, e ribadire che deve sposarsi con un’altra, Gamzatti, la donna che tra l’altro uccise la sua Nikiya! Tant’è che Natal’ja Makarova – ex ballerina del Kirov come Nureyev, e rifugiata politica anch’essa – nel 1980, fu interessata a recuperare il IV atto, riallestendo il tutto in maniera originale. Infatti, dopo varie riprese sempre e solo in territorio sovietico, è solo nel 1961 che la Bayadère arriva per la prima volta in Occidente, sempre grazie al balletto del Kirov, e con Nureyev nei panni del protagonista. Principio e fine. Quella che viene presentata in questa stagione della Scala è infatti la versione curata per l’Opera di Parigi proprio da Nureyev, a pochi mesi dalla sua scomparsa, nel 1992. Senza entrare ulteriormente nell’intricata trama di come la coreografia si sia tramandata, quest’ultima versione si inserisce nella storia del balletto dopo la già citata versione della Makarova: l’obiettivo di Nureyev è quindi quello di riprendere nell’alveo dell’Opera di Parigi la tradizione sovietica che il Kirov ancora portava avanti dal ’41, in alternativa alla versione proposta dalla Makarova, che stava prendendo piede come base per le riprese successive (infatti – a titolo di esempio – a parte che nel 2018, alla Scala venne rappresentata sempre questa versione coreografica). Nureyev quindi vuole proporre una versione che mostri le qualità tecniche dai ballerini, ma anche garantire continuità filologica con il Kirov, blindato tra i confini della Cortina di ferro. Infatti, anche lo spartito originale di Minkus era ignoto all’Occidente, e Nureyev e il suo assistente approfittarono di una tournée in Russia dell’Opera di Parigi per fotocopiare questi spartiti e nasconderli tra le pieghe dei vestiti per poter passare la dogana indenni! Nella sostanza, quindi, Nurayev e Makarova si fecero portavoci occidentali di questo balletto in Occidente, portando avanti due tradizioni differenti dell’importantissimo teatro in cui si erano formati. Ma, oltre a ciò, quali sono le altre novità che porta la coreografia di Nureyev? Riporto qui quanto ho notato. Oltre che basarsi per l’appunto sullo schema coreografico del balletto di Kirov (quindi troncato al Regno delle ombre), Nureyev aggiunge qualche difficoltà tecnica in più, soprattutto nelle variazioni, com’era sua prassi; oppure – e questo è un tema importante – dona maggior spazio agli uomini: ad esempio, all’inizio dell’Atto I Scena II, sul tema di fanfara di apertura, otto ballerini, dopo aver brindato con il Rajah alla sua salute, eseguono una coreografia corale che rappresenta l’alter ego maschile dei pezzi d’insieme tipici delle ballerine; oppure, all’inizio dell’Atto III inserisce un assolo di Solor, ricco di salti, in una sequenza tecnicamente sfidante, ma anche significativa (come nella serie di tre sissonnes uno di seguito all’altro, che cambiano ogni volta épaulement: pare stia percorrendo un percorso a ostacoli, quelli del suo amore?) per poi andare a fumare il narghilè che lo farà sprofondare nel Regno delle ombre. Tutto ciò non stupisce: Nureyev si è prodigato molto al fine di restituire tutta la dignità possibile alla figura maschile nella danza. E non è sono una questione di genere (curiosamente ribaltata!), ma una conquista estetica a tutto tondo: con i progressi della tecnica gli uomini avevano compensato quell’apparente scarto stilistico che aveva portato troppo semplicisticamente alcuni critici ottocenteschi a dire, ad esempio, che gli uomini non avrebbero dovuto neanche danzare in pubblico. Con ciò abbiamo riassunto almeno il necessario. Come in altri contesti, quindi, ciascuno di noi potrà preferire una delle due versioni dello spettacolo, ma ognuna è portatrice delle proprie ragioni. Foto Brescia & Amisano