Milano, Palazzo Reale
MONET DAL MUSÉE MARMOTTAN MONET DI PARIGI
Dal 18 settembre 2021 al 30 gennaio 2022
Orari: dal martedì alla domenica: 10 – 19.30 / Giovedì chiusura alle 22.30 – Biglietti: Intero 14 € / Ridotto 12€ Audioguida inclusa
La collezione dei quadri ancora in possesso di Claude Monet, alla sua morte, finì nelle mani del figlio Michel, il quale nominò poi erede universale il Musée Marmottan di Parigi. È da lì che assunse la denominazione Musée Marmottan Monet. Proprio il tempio del grande studioso di arte neoclassica Paul Marmottan venne designato quale scrigno per custodire quel che rimaneva delle opere ancora in possesso del maggior pittore impressionista. È nell’ambito del progetto museologico pluriennale “Musei del mondo a Palazzo Reale” che la collezione dei quadri di Monet del Marmottan Monet viene esposta qui a Milano: vuole essere un’occasione per avvicinare i milanesi ad opere lontane. Ed effettivamente le occasioni per osservare da vicino i quadri di Monet in musei milanesi rappresentano un evento. L’esposizione si articola in sette sezioni tematiche, e permette di vedere anche quadri di una certa importanza nel percorso evolutivo – lo diciamo senza retorica – di uno dei più grandi pittori della storia dell’arte. In queste sale si spiega cosa sia la pittura en plein air, con cui Monet iniziò, per poi arrivare all’importante lavoro sulla luce, agli effetti che questa ha sulle cose, per infine approdare alla fase più tarda, in cui arriva a soluzioni quasi astratte, ma dove dipinge anche le celeberrime Ninfee, uno dei temi su cui Monet torna ossessivamente negli ultimi anni a Giverny. La mostra conclude, infine, il percorso con Le rose, quadro dipinto qualche mese prima di morire. Dobbiamo però sottolineare che questa mostra, soprattutto in questo periodo, richiama molti visitatori già a partire dall’orario di apertura: un chiaro segno di come il nome di Monet sia familiare e susciti vivo interesse nel pubblico più vario. Proprio per questi motivi credo che l’esposizione meritasse maggior spazio: il percorso si snoda per sale un po’ troppo piccole; e in più sacrifica il già poco spazio a due ambienti sì spettacolari, e che vogliono far intuire quella sensazione di infinito ricercata da Monet, ma a cui si poteva rinunciare. Oltre a ciò, se l’obiettivo era di permettere ai milanesi di conoscere e scoprire da vicino un museo, mancavano sicuramente due quadri cruciali: sto parlando soprattutto di Impressione. Levar del sole, opera celeberrima, manifesto dell’impressionismo; nonché di Cattedrale di Rouen, effetto del sole a fine giornata, uno dei tanti dipinti della serie, anch’essa celeberrima, oltre che essere uno dei simboli dello studio degli effetti della luce sulle cose da parte dell’artista – tra l’altro uno dei temi portanti della mostra. In secondo luogo, nonostante la prima sala illustri qualcosa del Museé Marmottan Monet, poco si ritrova degli spunti illustrati nell’interessante testo in catalogo ad opera del direttore di Palazzo Reale, il quale verte sui rapporti tra il Marmottan collezionista e Palazzo reale stesso, focalizzandosi sullo studio di due tondi raffiguranti l’Imperatrice Joséphine e Napoleone I, acquistati da Marmottan a Milano, quando le collezioni di Palazzo reale venivano vendute. Ma non solo. Dovendo essere questa esposizione – così è dichiarato negli intenti – non una retrospettiva ma un avvicinamento a un museo, e nello specifico al lascito di Michel Monet al Marmottan, credo avrebbero meritato un po’ di spazio in più le vicende collezionistiche di questo nucleo. Il lascito al Marmottan rappresenta solo la parte residuale di un nucleo ben più numeroso: dei 389 dipinti e disegni ereditati dal padre, Michel ne venderà ben 292. È questo il conteggio di un altro corposo intervento nel catalogo della mostra, che fa chiarezza, oltre che aggiungere dettagli, sulle vicende di questa collezione. Alla morte del padre, Michel potrà finalmente sposarsi con la donna con cui il padre gli aveva proibito di unirsi; poi attingerà sempre a quel corpus di dipinti come a un patrimonio. Ma, se il Monet Ottocentesco era quello più apprezzato, i dipinti dell’ultima fase erano quelli con minor mercato, e si operò perciò una riabilitazione. Nel 1949 (per la prima volta dalla morte di Monet) Michel presta una selezione di grandi Ninfee alla mostra Impressionisten organizzata dalla Kunsthalle di Basilea. Dopo di che molti musei stranieri cominciarono ad acquistare dipinti di questa serie. Ad esempio, le opere ora a New York erano passate per la galleria parigina di Katia Granoff. Proprio in questo frangente, agli occhi di Michel, lo Stato francese si macchiò di una mancanza: non ne acquistò nessuna. Questo fatto costituirà un precedente che indurrà Michel Monet, ritenendosi tra l’altro vittima di una politica di abusi e di confische da parte dell’erario, a non designare come eredi lo Stato e i Musei nazionali. Poi, c’è anche un’altra spinosa vicenda che compromise il rapporto tra lui e lo Stato francese, la famosa questione dell’Orangerie, ricostruita sempre nel dettaglio nel catalogo. Nonostante il lascito del padre vietasse “l’inserimento di alcuna altra opera di scultura o di pittura nelle sale delle Ninfee” e che “la disposizione dei pannelli donati non potrà essere modificata mai, per nessuna ragione” (l’allestimento nella sala era stata curata da Monet stesso), per la mostra Da Van Eyck a Bruegel, tenutasi tra novembre e dicembre del 1935, si fece un’eccezione contro la volontà dell’erede. Ma le amarezze non finirono, successivamente venne anche proposta a Michel una sede migliore per le Ninfee dell’Orangerie. Insomma, la corda venne tirata a tal punto che Michel dovette essere convinto a scegliere come erede di quel che rimaneva dei dipinti del padre il Musée Marmottan: non dipendeva dalla Direzione dei Musei di Francia ma da un’istituzione indipendente (l’Académie des beaux-arts), la quale godeva della libertà di un museo privato. Solo così si riuscì a far sì che quei dipinti restassero su suolo francese. Questo tipo di studi rappresenta, per quanto abbiamo potuto evidenziare, uno spunto critico che avrebbe donato più valore alla mostra, che invece media e cerca di trasformare una collezione (che presenta spesso e volentieri vicende al limite del romanzesco) in una retrospettiva incompleta, oltre che costretta in uno spazio troppo piccolo. Ciononostante, le oltre 50 opere esposte permettono di cogliere molto, e colpiscono. Soprattutto quelle del Monet già affermato. Si rimane affascinati – cito solo degli esempi – dalle visioni di Londra, reputata da Monet una delle città più belle, proprio perché avvolta dalla nebbia; dalle ninfee esposte, simulacro di un’attività incessante (a questo punto) a noi ben nota; dai fiori in genere, che traboccavano nel suo giardino di Giverny; e anche da quella sorta di astrattismo che già Kandiskij, davanti ai Covoni, aveva riscontrato: il soggetto dei vari dipinti del ponte ferroviario di Charing Cross, ad esempio, lo apprendiamo solo dal titolo, proprio come per i Covoni. Questa impressione (è proprio il caso di dirlo!) che abbiamo è confermata anche dal catalogo, dove viene riproposta una valutazione critica del 2010 (in occasione di una mostra a Parigi), secondo la quale un “effetto immateriale […] molto diverso dalla resa naturalistica dei colori del luogo”, come lo si riscontra negli ultimi anni (quando Monet perse e poi riacquistò la vista), è già presente anni prima: i Covoni sono del ’90-‘91 dell’Ottocento, i viaggi a Londra dei primi del Novecento. Abbiamo a questo punto tutti gli elementi per tirare le fila: la mostra paga principalmente lo scotto di aver avuto poco spazio a disposizione, oltre che a non raccontare molto del museo di provenienza delle tele. Ma se amate Monet, e non avete la possibilità di viaggiare – in questo periodo, problema quanto mai serio – questa mostra, nonostante non centri in pieno il suo obiettivo, consente di avvicinarsi al mondo di questo grandissimo Maestro.